La città-stato è affascinante, un guazzabuglio ordinato di cose e persone, probabilmente governato con molta saggezza, visto che gode di un incredibile benessere, senza il sudiciume frutto del consumismo occidentale. Nell’Asia caratterizzata da nazioni immense, Singapore è una piccolissima unità statale autonoma, un’isola all’estremità della Malesia occupata da una grande e bellissima città portuale e dalle sue periferie. Singapore accoglie il visitatore con uno slogan una volta tanto non smentito dalla realtà: “Tutte le città hanno un bel giardino nel centro, Singapore è una città nel centro di un bel giardino”. Per la verità si tratta soprattutto di un “orto botanico” in stile britannico che nel 2015 è stato inserito dall’UNESCO nell’elenco dei siti protetti per la straordinaria bellezza, ma soprattutto per le preziosissime collezioni di piante rare viventi a disposizione degli studi degli scienziati botanici di tutto il mondo, fin dal lontano 1859, quando questa rarità fu inaugurata dagli inglesi. La visita di questo paradiso in fiore da sola può giustificare il lungo viaggio. Già l’aeroporto, che in molte città del mondo è un’infrastruttura squallida e non sempre funzionale, qui si presenta come una serra con piante e fiori, luci diffuse e linee eleganti in tutti gli edifici e negli arredi. All’esterno si notano cascate di buganvillee e poi, lungo l’autostrada, una profusione di piante tropicali assai curate su prati all’inglese pettinatissimi. Un cartello avverte: “La multa per una cicca gettata in terra è di mille dollari e i poliziotti girano in borghese”. Singapore ha, in effetti, perduto il suo fascino di sordido crocevia fra quattro continenti, sede di traffici e di promiscuità orientali. Questa immagine è relegata in certi romanzi d’avventura del secolo scorso. Oggi la città, modernizzata con intelligenza e intraprendenza capitalistica, si presenta come un gigantesco centro commerciale dove è bello, ma anche un po’ nauseante aggirarsi. L’importante è non comprare nulla se ci si vuole sentire al colmo dello snob, poiché tutti si dedicano a spendere. Le vetrine troppo ricolme vomitano letteralmente sulle strade valanghe d’aggeggi elettronici giapponesi, ma c’è di tutto, perché Singapore è un porto franco. Prima di fare un giro si può bere qualcosa in un pub di puro stile britannico, trapiantato qui da Chelsea. Poi si scopre che tutta la città è formata da pezzi di Londra e Chicago, angoli di Bangkok o d’Amsterdam, scorci di città cinesi o indiane ritagliati e appiccicati qui con la colla di pesce, in modo armonico tra le quinte della vegetazione tropicale, sicché il visitatore ha l’impressione di un ordine perfetto e di una grande organizzazione. Dai quattro punti cardinali l’East-West e la North-South MRT lines, metropolitane ultramoderne, convogliano verso il centro milioni di cittadini amabili nell’aspetto, quasi tutti giovani, lindi e cordiali. I treni con l’aria condizionata e la musica classica arrivano nelle stazioni teleguidati dietro pareti di vetro che evitano frastuono e correnti d’aria, le porte scorrevoli si aprono, la folla sciama in ordine sui marciapiedi di marmo bianco che misteriosamente rimangono candidi fino a notte alta, quando il servizio è sospeso. Le auto pagano un pedaggio salato per entrare nel centro urbano, salvato così dagli ingorghi e dall’inquinamento. Nei grandi quartieri cinesi la gente ha conservato abitudini e costumi d’origine, vivendo molto all’aperto, accorrendo nei luoghi di culto per portare le offerte, animando le strade con i loro incredibili commerci. Gli indiani e i malesi, favoriti dal clima, riproducono a Singapore le molli atmosfere delle loro terre. Gli europei e gli americani vivono in lussuose residenze ed hanno uffici nei vertiginosi edifici dei centri direzionali e negozi nell’area più commerciale della città fra l’Orchard road e Marina square. Gli asiatici dei paesi più poveri, filippini, tailandesi, cingalesi e indonesiani forniscono manodopera e servizi, ma tutti sembrano irreggimentati sotto un regime politico che non si può definire dittatura, ma non concede spazio a qualsiasi forma di disordine o indisciplina, che in un piccolo spazio densamente popolato sarebbero esiziali e metterebbero in pericolo il miracoloso livello di benessere raggiunto dal piccolo stato, considerato un modello di civiltà e una “tigre” dell’Asia per la sua potenza economica. Nella cornice di questa città straordinaria è difficile soffermarsi sui dettagli di un quadro che dà il capogiro: auto di lusso, superstiti risciò, semafori intelligenti, pedoni come automi, ristoranti cinesi che propongono riso bollito, fritto o soffiato, spaghetti di riso, taverne tailandesi dai manicaretti sospetti in larghe padelle bisunte, fast-food occidentali luccicanti, aragoste che pregano con le chele giunte di non essere gettate vive nell’acqua bollente, efebi che ancheggiano sulla Orchard road, un quarto d’ora d’acquazzone monsonico, nuovo sole a picco, rigagnoli di salsa di soia, l’orto botanico stupendo, qualche catapecchia, banche faraoniche, hotel e uffici di settanta piani, inglesi con le lentiggini, cinesi, malesi, indiani, arabi, i loro templi, pagode, moschee, chiese protestanti, qualcuno di noi, l’immancabile pizzeria, australiani extra-large in vacanza, donne bellissime con tacchi altissimi, prezzi bassissimi, massaggiatrici dalla tecnica corpo a corpo, monache missionarie in transito per le Molucche, prostitute minorenni, domestiche filippine in crocchio alle fermate dei bus, pastori anglicani, controsensi, non sensi, taxi sfreccianti in tutti i sensi. Si potrebbero perdere i sensi, ma la vista no. C’è troppo da vedere in poco tempo e in così piccolo spazio. Una cabinovia silenziosa scavalca un braccio d’oceano per recarsi a Sentosa Island, trasformata in un gigantesco Luna-park. Rifiutiamo d’andarci. Meglio immergersi nei mercati, quello cinese, arabo, indiano, giapponese, il supermercato, l’ipermercato, il megamercato, la città-mercato. Imbarcazioni d’ogni tipo e tonnellaggio scivolano fra le isole dell’immenso emporio aperto sul mare. Orchidee splendono nelle aiuole, nei parchi, alle finestre, su tutti i tavoli. All’angolo fra Bras Basah road e Beach road, al bar dello storico Raffles Hotel i camerieri impeccabili servono secondo un rito consolidato il mitico Singapore sling, una frustata di gin aromatizzato che fa passare l’appetito, ma rimette in sesto nel clima caldo e umido della metropoli. Ai ristoranti s’assaggia di tutto, storditi dalla varietà e dall’abbondanza, senza domandarsi a quali bestie strane siano appartenute tutte quelle carni. Alle sette del mattino di un venticinque dicembre mi sono svegliato con una sensazione di freddo, colpa dei condizionatori d’aria dell’ Hyatt Regency mandati a tutta forza. Rannicchiato sotto le coperte ho ascoltato la TV trasmettere le previsioni del tempo in malese, con le temperature espresse in gradi Farenheit. Capisco solo che farà molto caldo. In Italia sotto la neve si festeggia la Notte santa. Quando ho aperto la tenda pesante, il sole tropicale è entrato a formare un rettangolo troppo netto sulla moquette. Oltre i vetri della finestra, i grattacieli della Scott’s road sembrano dita di cristallo e cemento puntate contro, forse ammoniscono a non innamorarsi troppo di Singapore. Mi attrezzo per scendere in piscina, costume verde e abbronzante con la massima forza di protezione.
Umberto Mantaut