Come ogni anno all’inizio di giugno le scuole chiudono e si apre la ignobile farsa degli esami. Da decenni, a partire dal famigerato ’68, con la complicità dei politici incapaci insediati nel Ministero della Pubblica Distruzione, dei docenti, dei loro sindacati, dei discenti e loro genitori ai quali si è concesso di avere voce in capitolo, le scuole italiane di ogni ordine e grado sono state ridotte in condizioni tali di degrado che ci si domanda che senso può avere tenerle ancora aperte. Non si salva neppure l’Università. Un fatterello recente ha dimostrato senza ombra di dubbio che persino la maggioranza dei laureati in giurisprudenza sono semianalfabeti. Alle prove scritte per accedere alle carriere il 95% dei candidati non ha superato gli esami scritti per gravissime lacune culturali, lessicali e persino grammaticali e ortografiche. Del resto oggi si prova una pena intensa se si tenta di dialogare con i ragazzi, cosa assai difficile poiché i loro riferimenti, i mezzi di comunicazione e lo stesso idioma non hanno più nulla a che fare con ciò che un tempo si chiamava “cultura generale”, che, si noti bene, veniva fornita persino agli sfortunati che lasciavano gli studi con la sola licenza della quinta elementare. Comunque, i riti in Italia devono essere rispettati, specie se caduti nel ridicolo, ed ecco gli esami di fine corso, fra i quali merita un particolare appunto la cosiddetta “maturità”. Nei licei e negli istituti tecnici, i giovani, dopo gli scrutini alla fine dell’ultimo anno di corso, si presentavano un tempo, con il loro bagaglio rappresentato da nozioni, informazioni e livello di formazione, al cospetto di una severa commissione esaminatrice “esterna”, formata da docenti diversi da quelli addetti alla preparazione dei candidati. La figura del Presidente di Commissione era una garanzia del rispetto delle procedure d’esame e dalla serietà dei compiti. In un certo senso, i “colleghi” venuti da fuori, giudicavano non solo il grado di preparazione dei ragazzi, ma anche la qualità del lavoro dei loro docenti, cosa non secondaria che stimolava questi ultimi a dare il massimo durante gli anni di formazione dei discenti, per ottenere prestigio personale e per la scuola di riferimento. Dopo il ’68 progressivamente l’esame di Stato di fine corso, tanto temuto dalle passate generazioni, si è trasformato in un rito vuoto, inutile e poco serio, per non dire indecente. Per un certo tempo si è mantenuta la formula, tra l’altro costosa in termini di spesa pubblica, della commissione formata da membri esterni ed un solo “interno”. Questa infelice figura, oltre che a lavorare senza diarie e prebende, era il Cireneo che portava la croce per far promuovere tutti, dal migliore, che spesso agli esami non dava il rendimento sperato, perché affaticato ed emozionato, agli asini, non stressati non avendo mai studiato durante l’anno, dediti a scopiazzare alle prove scritte e balbettanti alle prove orali, giustificandoli con giudizi di tenore ridicolo. Il candidato, sebbene posto a suo agio dai commissari, invitato a scegliersi gli argomenti da trattare, ha avuto esitazioni nelle scelte, dimostrato lacune notevoli, ma aiutato ha mostrato di sapersi orientare con atteggiamenti maturi, sicché lo si dichiara “maturo” sia pure con voto minimo e non gli si consiglia la prosecuzione degli studi. Si noti che questi stramaturi, caduti dal pero, spesso sono i primi ad iscriversi alle facoltà universitarie e trovare posti di lavoro attraverso la barbarie delle raccomandazioni. Poi, specie per risparmiare denaro pubblico, si decise di esaminare i ragazzi a fine corso con una commissione formata dagli stessi docenti che li conoscono e li hanno portati all’ultimo anno di studi con la formula del “volemose bene” e del sei politico. Per una parvenza di severità e controllo si lasciò solo un presidente esterno e la annuale farsa del “tutti al mare promossi” si è trasformata in regola. In luglio compaiono le famose tabelle degli esiti e, l’unica cosa che interessa ai maturati è il voto finale complessivo, risultante da calcoli cabalistici fra crediti formativi accumulati in vari anni, pagelle dell’ultimo quadrimestre e voti ottenuti agli scritti e agli orali dell’esame di Stato. Qui tutto opportunamente ritoccato in positivo per i somari. Alla lettura degli esiti, infatti e non di rado, si assiste a scene di pianto da parte di chi ha studiato qualcosa e si vede valutato come i lavativi. Per ridere, di un “riso amaro”, si riporta la narrazione verace di un esame negli anni novanta, senza ovviamente dare riferimenti che permettano di individuare luogo, protagonisti e istituto interessati. Il quadro: un’aula infuocata in una tarda mattinata dei primi di luglio in Italia centrale, un lungo tavolo, la commissione schierata col presidente che si fa vento col giornale. Nel corridoio avanza il candidato convocato in quel momento. Il ragazzo dinoccolato veste calzoncini sbrindellati, una canottiera macchiata e ciabatte infradito. Più si avvicina più si nota che arriva dalla spiaggia. I peli sudati sono ancora sporchi di sabbia. Declina a stento le sue generalità. Come di regola si è scelto le due materie per la prova orale. La commissione gli parla delle sue prove scritte, mediocri, ma evidentemente rese accettabili da qualche scopiazzatura. La materia tecnica scelta è “tecnica delle costruzioni”. L’esaminatrice è una gentile docente della materia, la quale sfoglia il corposo programma presentato dalla scuola e, come ormai di regola. mette il candidato a suo agio facendogli scegliere l’argomento. Il tipo dichiara che per lui va bene se è l’insegnante a decidere. Allora la commissaria gli chiede di parlare delle “coperture”, ovviamente usando il rispettoso “lei”. Silenzio e occhi sgranati. Non sa cosa sono le coperture? Ebbene si tratta dei tetti. Silenzio. Insomma, ci saprebbe spiegare come mai a Bolzano i tetti sono molto spioventi, mentre da Roma in giù si prediligono le coperture piane? Il tipo si anima come punto da un insetto e in idioma laziale sbotta: “ah professoré ma chi c’è ito mai a Borzano”. Il povero membro interno sudò le sette camicie per far diplomare quel soggetto, con la motivazione che, sopraffatto dall’emozione delle prove, non aveva dato il meglio di sé.
Umberto Mantaut