Vorrei con queste righe piene di ricordi personali divertire il lettore e farlo meditare sulla importanza delle mamme nell’educazione dei figli, incominciando dalle mamme di ieri. Erano spesso donne ansiose e oberate dal peso delle cure materne e delle responsabilità, talvolta oscillavano fra l’apprensivo e l’oppressivo, senza con questo meritare critiche. Facevano tutto per il bene dei figli. Si tranquillizzino le femministe. Diciamo che il problema è la figura del padre che non esiste dal tempo della rivoluzione industriale. L’Europa e spiccatamente l’Italia sono passate rapidamente da una impostazione agricola e patriarcale alle frenesie manifatturiere. Il “babbo”, quando c’è e non ha lasciato la moglie per farsi una seconda famiglia con una “compagna”, esce di casa presto quando i figli dormono ancora, rientra stanco morto sul tardi. A cena si potrebbe parlare, ma tutti guardano la tv, poi un tempo “ragazzi a letto” dopo Carosello mentre oggi escono per partecipare alle movide con rientro alle ore piccole. Tutto il peso dell’educazione della prole ricade sulle mamme. Il padre è un conio per battere moneta necessaria per mantenere la famiglia. Andiamo indietro nel tempo con un aneddoto datato 1949. A 12 anni, in seconda media avevo un vicino di banco che mi invidiava. Io prendevo il tram, facevo un lungo tragitto a piedi portando due cartelle, la seconda era della mia prima fidanzatina, ma soprattutto vantavo l’esperienza di avere già preso un aereo da solo. Lui, poverino, non aveva spazi. La mamma apprensiva lo accompagnava e lo veniva a riprendere a scuola. Vietati a lui gli scherzi per strada dopo ore di severe lezioni. Un giorno la mamma ammalata dovette lasciarlo andare da solo. Schivò per un pelo un tram, ma fu falciato da un’auto nell’attraversare il viale davanti casa sua. Poveretto passò mesi in ospedale. Arriviamo di colpo al 1970, anno secondo del nuovo calendario sessantottino. La scuola era già ben avviata al suo totale sfacelo, ma qualche antico rito si svolgeva ancora. L’anno scolastico era scandito in trimestri, a Natale in famiglia arrivavano le prime pagelle, seguiva il rito sconcertante dei colloqui con i genitori in lunghi pomeriggi piovosi. Ecco una prima mamma impellicciata col marito silente in divisa dell’esercito. Allunga una mano molliccia e inanellata, prende la mia e con occhi imploranti: “mi dica professore, come va il mio bambino”. Piuttosto sgarbatamente le dico: “questo non è un asilo infantile, ma un istituto superiore, suo figlio ha quasi 18 anni, vogliamo chiamarlo ragazzo? Comunque, ha buoni voti e ottima condotta, vada tranquilla”. Camminando a ritroso dice: “mi scusi, ma per noi mamme i figli rimangono sempre bambini”. Io porto il peso di un segreto. Il ragazzo, settimane prima, mi aveva avvicinato durante un intervallo. Voleva aiuto e consiglio, aveva brutti sintomi e confessava che, non potendo uscire di sera, frequentava le prostitute che tuttora battono in pieno giorno in certi viali cittadini. Portato di nascosto dal mio medico, ecco una diagnosi di sifilide in stadio avanzato. Il dottore non vuole essere pagato per le cure, a mio carico solo i costosi antibiotici. Infine, guarito, in estate, ecco il “bambino” col diploma a pieni voti. Arriva una seconda mamma trafelata e malvestita. Il figlio è una nullità, dorme in classe con le braccia conserte sul banco e la testa affondata, quando russa i ragazzi ridono in coro. Lei racconta una storia strappacore. Il marito l’ha lasciata con altri due figli più piccoli, poi, sa “io ho l’utero”. Le faccio notare che quell’organo importante lo hanno un po’ tutte le mamme. Lei corregge: “sono malata, lui è l’unico a portare soldi a casa, lavora di notte in un bar di Via Veneto e prende grosse mance, dovete comprendere”. La cosa mi puzza. Il ragazzo, ventenne e ripetente, ostenta abbigliamento costoso e spesso parcheggia la sua Alfa Romeo nuova accanto alla mia vecchia Fiat 500. Interrogato abilmente confessa. Il bar di lusso esiste, lui non lavora dentro ma sul marciapiede vendendosi a tardone americane e uomini dai gusti particolari, donne generose e maschi tirchi con lunghe precisazioni circa i ruoli. A bruciapelo mi chiede quanto mi danno al mese di stipendio e ridendo mi dice che lui guadagna quella somma in due sere, anzi “a professò lei ha ancora un bel fisico, venga con me, le vecchie e certi maschi stranieri cercano l’uomo maturo, Italians Do it better”, è un’etichetta discografica americana. Arriviamo all’anno ’80. Ormai insegnare è una sinecura. Molti colleghi nemmeno vengono più nelle aule. Tra assemblee, okkupazioni e autogestioni tutto è in mano a un manipolo di figli di papà indottrinati, che credono pure di essere di supporto alle lotte operaie. Insistono sullo sfruttamento nelle catene di montaggio disumane e parlano di mondine con le gambe a mollo nelle risaie. Convinco i ragazzi della mia classe mista a partecipare a un viaggio di istruzione a Torino, Ivrea e Vercelli. Con difficoltà ottengo il permesso per visite guidate. A Mirafiori ci mostrano catene di montaggio moderne, dove i lavori ripetitivi e alienanti e quelli pericolosi per la salute come le verniciature sono svolti da batterie di robot. Gli operai in camice bianco stanno in certe cabine di vetro a manovrare i comandi per i robot. Divertente sapere che le vecchie catene di montaggio sono state trasferite nel ‘66 a Togliattigrad per produrre la famosa Fiat 124. A Ivrea alla Olivetti si scopre il lavoro ad isole. Un gruppo di circa 10 donne si impegna a produrre un certo numero di “pezzi” finiti entro un certo tempo e si autogestisce il lavoro. Notiamo che una lavora a maglia, ci spiegano che a turno riposano. Arriva un carrello con le colazioni. Poi andiamo al nido dove le donne lasciano i piccoli alle cure di ragazze assunte dalla ditta come babysitter. Con navette della ditta le operaie sono a fine turno accompagnate casa per casa. Nelle aziende agricole del Vercellese i ragazzi sono delusi. Speravano di trovare belle mondine sfruttate ma disponibili. Trovano solo elicotteri che svolazzano distribuendo diserbanti sulle risaie. Al rientro solo qualcuno ha capito che falce e martello sono ora sostituiti da mietitrebbia e computer. Siamo fuori tema, ma le mamme di ieri c’entrano. Ne abbiamo una anche qui. In classe la ragazza più bella è conosciuta come la “cinesina” per le sue movenze orientali e gli occhi a mandorla. Ovviamente è fidanzata col più bello della 5°A. La madre mi aggredisce. Come le è venuto in mente di portare tutta la classe in Piemonte. Io non finanzio e non le firmo la autorizzazione, non vorrei mi tornasse incinta. La ragazzina passa la settimana in 5°B, il preside non le concede otto giorni a casa. Varie settimane dopo il rientro la cinesina ha nausee mattutine in classe. In breve aspetta un bambino, avendo tradito il bello della 5°C col più brutto della B. Nasce una piccola e la madre obbliga la figlia a sposare il pedicelloso della 5°B. Ormai non ci resta che arrivare alle ultime puntate della telenovela. Circa tre anni dopo, una mattina di estate, una grossa moto si ferma davanti casa mia. Tolti i caschi riconosco la cinesina e il bello della 5°A. Mi annunciano che sono tornati insieme. La bimba piccola è stata affidata alla nonna “severa” che le vieterà le gite scolastiche, allevando una ribelle del nuovo millennio. Scorrono i titoli di coda, ma prima del “The end” bisogna sapere che il finale è un po’ triste. Una notte a un concerto all’aperto ho rivisto la cinesina. Era sola e avvilita senza compagno. Mi ha guardato ha mosso una mano, si è messa a piangere e si è accesa uno spinello.
Umberto Mantaut