Bei tempi erano quelli nei quali non avevamo ancora voltato le spalle alla nostra lingua madre, il latino. La bella scuola dell’obbligo odierna è davvero molto democratica. Non è ancora giunta a stabilire che per andare incontro alle masse bisogna privilegiare i dialetti, parolacce incluse, ma il latino era “roba” troppo aristocratica, meglio un italiano senza congiuntivi, anzi un brutto gergo pieno di termini derivati dalle lingue straniere più in voga, per ora l’inglese, ma, chissà, dopo la Brexit potremmo mediare magari dal cinese. Sempre per un malinteso senso della equità e per la moda del “volemose bene” non si può negare l’attestato di piena maturità agli acerbi o non dotare di laurea persino certi semianalfabeti. Il popolo è contento e come sempre fregato. I figli di papà studiano in istituti privati, fanno corsi all’estero, sono come minimo bilingui e trovano poi impieghi prestigiosi lontano dall’ingrata patria. In Italia, più pezzi di carta accumuli più hai probabilità di rimanere disoccupato. Del resto ai colloqui presso le ditte che cercano personale si presentano laureati che a malapena riescono a declinare le proprie generalità. Nel buio secolo passato, molti per mancanza di mezzi o perché poco portati per studi superiori si fermavano alla quinta elementare. Chissà come, ma con la maestra o il maestro unici, i ragazzi con la “quinta” avevano più sale in zucca degli attuali titolati. Potevano accedere a corsi per arti e mestieri e comunque si sistemavano tutti dignitosamente. Verso la fine degli anni ’50, in pieno sviluppo economico, l’Italia aveva pochissimi disoccupati. L’uomo o la donna non cercavano il lavoro, era il lavoro che li cercava, bastava guardarsi intorno. Con il “tutti promossi” abbiamo ragionieri che non ragionano e geometri che non sanno che uno scalino ha una alzata e una pedata. I delusi e intelligenti capiscono di essere stati “impreparati” da una scuola che dovrebbe essere presa a pedate, iniziando dai ministri che per riformarla l’hanno deformata. Sempre a metà del secolo trascorso, i ragazzi che arrivavano alla terza media possedevano una buona preparazione in latino ed erano in grado di recitare la elegia di Tibullo, “Come un contadino”, rispettandone la metrica. Il latino è una lingua meravigliosa, ma molto difficile, quindi preparava non solo per i successivi studi classici, ma anche per quelli scientifici. A Torino, all’Università, un professore di botanica sistematica, fatto l’appello e notato di essere in presenza di allievi italiani, francesi e greci decise di tenere le lezioni in latino. Ecco che il carciofo, l’artichaut e la ankinára fu per tutti Cynara scolymus. La nostra lingua madre dell’antica Roma è tuttora universale in diversi ambiti della scienza e lo era anche per la Chiesa, finché Essa non decise di trasformare la Messa in un comizio nella lingua del posto, sperando invano di aumentare la partecipazione dei fedeli. La scusa fu che il volgo poteva non capire il significato delle preghiere in latino, mentre invece capiva benissimo, soprattutto che si trattava di una cosa mistica di alto valore che accomunava i popoli “urbi et orbi”. L’abbandono del latino nelle scuole poteva almeno essere compensato dallo studio serio di una seconda lingua, possibilmente difficile, non per sadismo verso gli studenti, ma per abituarli e declinazioni e coniugazioni, in poche parole a tenere in esercizio il cervello. Abbiamo accettato di vivere in una Europa germanocentrica, allora andrebbe bene il tedesco che non scherza in termini di complessità. Invece, eccoci tutti subissati da anglicismi, spesso pronunciati pure male, poiché la maggior parte dei docenti di inglese non sono di madre lingua e spiegano che basta imparare il verbo “to get” che ha trentasei diversi significati e si può tranquillamente viaggiare “urbi et orbi”, dove non pare proprio che si viva tutti “side by side in perfect harmony”, come spererebbe Paul McCartney. Qualcuno, dimenticando che il mondo aveva a disposizione il latino come lingua universale ha inventato l’esperanto, parlato da quattro gatti che potrebbero ridursi a tre incontrando un cane mastino. Bona tempora erano quelli con l’insegnante che alla prima lezione partiva da un fiore inondando la classe del profumo di “rosae, rosarum, rosis”. Oggi, un ragazzo curioso e disperatamente solo davanti a un computer digita per capire cosa mai potrebbe essere il recovery fund, poiché il nonno teme che significhi “se ti ricoverano sei arrivato al fondo” e fa i debiti scongiuri. Mala tempora currunt.
Umberto Mantaut