Nel corso della mia attività di microfaunista mi sono sempre chiesto il perché per tanti miei colleghi, specie non professionisti, stendere “compulsivamente” pubblicazioni strettamente scientifiche costituisca il fine precipuo della vita. Se pure talvolta vi è capitata tra le mani una di tali note, naturalmente colme di linguaggio tecnico indefettibile, vi accorgereste che non vi capireste un gran che. Come non ricordare l’appellativo che uno di questi colleghi affibbiava agli insetti, oggetto di studio, definendoli puntualmente e ripetutamente con l’epiteto un tantino duro e distaccato di “bestie”. Non fa meraviglia, allora, che la gente comune stenti a prendere adeguata conoscenza degli insetti e dei loro importanti servizi ecosistemici: vale la pena di ricordare che molti provvedono con solerzia all’impollinazione dei fiori e consentono la sopravvivenza di numerose specie vegetali, altri si comportano da predatori e regolano le popolazioni delle specie dannose, come demolitori poi riciclano enormi quantità di sostanza organica in decomposizione, altrimenti rimarrebbe lì dove sta, con le conseguenze che facilmente tutti possiamo immaginare: le mie farfalle, poi, ci regalano bellezza e felicità, provare per credere! La verità è che la scienza moderna ha messo al bando le emozioni, che pure fanno parte di qualsiasi essere umano, considerando spesso tale insopprimibile emotività come un temibile difetto. Nessuno s’era accorto che un “gigante” come E. Fromm aveva chiarito che la ragione umana nasce dalla mescolanza di pensiero razionale e sentimento: se nell’individuo le due funzioni sono scisse il pensiero degenera in un’attività intellettuale schizoide, e il sentimento degenera in nocive passioni nevrotiche. Nel suo “Il Tao dell’Ecologia” E. Goldsmith scrive che la scienza moderna ha decretato che la conoscenza scientifica deve essere oggettiva, il che si accorda bene con l’approccio distaccato e impersonale della maggioranza degli scienziati dei nostri giorni, per i quali, per esempio, una splendida farfalla è solo una “bestia” da preparare e classificare, e una lussureggiante foresta tropicale una risorsa da mappare e sezionare, magari soprattutto ai fini utilitaristici. Come naturalista che si occupa costantemente di divulgazione della natura a tutto tondo, il sottoscritto conserva ancora preziose tavole e scritti di naturalisti dell’Ottocento, che descrivevano gli ecosistemi naturali con grande emozione ed un senso quasi religioso, le troverete persino nel mio piccolo Museo Laboratorio sul Parco del Pollino esposte nelle vetrine dedicate alle “Farfalle e l’Uomo”. O Voi che leggete queste mie righe, cosa pensate di quegli uomini di scienza ancor oggi impegnati a progettare e realizzare armi di distruzione di massa, come le bombe nucleari, tattiche o meno, e come fanno costoro ad essere incapaci di distanziarsi emotivamente da tutto questo orrore, svilendo, come scrive Fromm, l’umana ragionevolezza in una attività intellettuale che definire schizoide sarebbe proprio il minimo? La rimozione dei sentimenti, pur esclusivi di noi umani, è una “catastrofe” che si somma oggi ai problemi del clima, della guerra, delle pandemie, ma che riguarda gli stessi valori fondamentali dell’uomo, “la sua spiritualità, la sua capacità di ridere e piangere, di cantare e ballare, di amare e odiare: di fatto, di tutto ciò che lo rende “umano”! Ma questo tipo di scienziato è veramente privo di emotività come appare? Per Goldsmith non del tutto, l’educazione scientifica non elimina le emozioni, semplicemente ne sposta l’oggetto: così la cultura scientifica invece di insegnare alle persone a provare emozioni per l’ecosistema e la bellezza degli ambienti naturali, insegna loro a provare emozione per l’impresa scientifica e la sua realizzazione, che apporti carriera e adeguato compenso. Molti scienziati moderni, stavolta illuminati – stiamo ancora parlando di Goldsmith, ma anche di J. Lovelock, di E.P.Odum, di E.O.Wilson, per es. – scrivono che quel distacco scientifico sin qui delineato sia quanto di più “tossico” vi possa essere per la salvezza del pianeta. Un grande ecologo come E.Mayr recentemente ha stabilito che “ per sopravvivere, ogni organismo vivente (quindi anche l’Uomo) dipende dalla conoscenza della diversità del suo ambiente” : ne consegue che considerare “schizoidamente” l’ambiente naturale solo un enorme pozzo cui attingere per i propri bisogni e le proprie comodità, o peggio, una comoda discarica, sempre a portata di mano, per sversarvi i propri rifiuti, sia del tutto inidoneo per garantire una lunga sopravvivenza dell’Homo, pur sapiens, su questo pianeta. Quindi oltre alla conoscenza, è fondamentale un grande impegno morale ed emotivo, che si affianca a quello tecnico, così come è stato per i popoli “vernacolari”, tutti accomunati da una cultura locale nel tempo in cui le persone sapevano realmente come vivere in armonia con il mondo naturale. Per questo la tesi sostenuta da tutti questi autori è che ci possiamo salvare solo se ci si mette di buona lena a reinterpretare i nostri problemi alla luce d’una visione del mondo diversa dall’attuale, la visione del mondo dell’ecologia, simile a quella dei nostri antenati, i quali sapevano bene, come l’uomo moderno e “schizoide” non sa più, come vivere sullo splendido pianeta che abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di ereditare.
Valentino Valentini