Quando il volgo sostiene che “siamo arrivati alla frutta” intende dire che la situazione è catastrofica e i rimedi sono difficili da trovare. In Italia, frutta significava mele del Trentino, Pizzutello di Tivoli, fragoline di bosco di Nemi o agrumi del sud, ma con i mutamenti climatici pare che in certe aree calde della Sicilia sia oggi possibile piantare bananeti. Le banane ricordano anche il nostro malvezzo di parlare a vanvera di certi paesi dell’America latina, definiti con sarcasmo “repubbliche delle banane”. Dovremmo chiedere scusa dal momento che anche noi da tempo abbiamo parlamenti litigiosi, primi ministri nelle vesti di domatori di circhi e presidenti fantoccio. Chi più di noi al mondo è latino? Nella splendida Sicilia poi, che si accinge a diventare un centro bananiero, alla latinità si aggiungono la filosofia greca, la sottigliezza dei bizantini, l’astuzia levantina, la melliflua ambiguità araba, i salamelecchi iberici. Scopriamo forse solo ora che la nostra “repubblica delle banane” è in realtà una estensione estemporanea del Regno delle due Sicilie. A nulla sono valsi i tentativi di trasferire in tutta Italia mentalità e metodi di governo di altra matrice. Ci provarono gli austroungarici nel Lombardoveneto e infatti sono le regioni più laboriose e quasi simili a qualcosa di europeo. Poi i piemontesi, dopo l’infausto incontro di Teano, si misero in testa di esportare nelle “colonie” del sud i rigidi sistemi di governo savoiardi, assolutamente estranei alle culture e alle mentalità vigenti. Alla fine, però, forse proprio alla Sicilia stiamo affidando il compito di afferrare le redini del comando o la barra del timone per tentare di continuare ad andare alla deriva, sperando però che la barca della discordia non si inclini sugli scogli di Ustica, isola già infausta per altri motivi. Occorre riconoscere senza offendere nessuno che, dopo la parentesi del Presidente Einaudi, eccellente per saggezza, cultura e ruolo svolto, quasi tutti i suoi successori hanno in un certo senso “dovuto” venir meno al loro dovere di arbitri sopra le parti e garanti assoluti dei dettami costituzionali. Durante l’era democristiana il 67% degli italiani viveva terrorizzato dall’idea che il 33% degli elettori comunisti potesse consegnarci con le mani e i piedi legati all’orrendo regime moscovita. Pertanto spesso i presidenti sembrava agissero cercando di mettere i bastoni fra le ruote alla sinistra, ma spesso i governi tentennavano per non scontentare sindacati e altre forze di contrasto. Per debolezze imperdonabili si tirò il freno a mano dello sviluppo, s’interruppe il boom economico e la corsa verso un benessere generalizzato subì una grave battuta d’arresto. Dopo il famigerato ’68 gli uomini al potere lasciarono, per debolezza e perché in gran parte ormai corrotti e occupati a fare più gli interessi propri che quelli del paese, che i giovinastri delle okkupazioni studentesche, crescendo di numero e di età, s’infiltrassero in tutti i gangli vitali della scuola, della magistratura e della pubblica amministrazione, per non parlare della politica trasformatasi progressivamente in ammucchiate ignobili. Si parla tanto di centrodestra o centrosinistra, ma vedendoli all’opera sembra di assistere a liti di comari nei bassifondi delle città, a loro volta amministrate in maniera indecente da altri politici di un secondo girone infernale di incompetenti e corrotti. Con colpi di mano, anzi di mani pulite, ma non disinfettate, la vecchia casta fu letteralmente sterminata, fatti salvi i compagni. Dopo il crollo del muro di Berlino si seppe di sicuro ciò che tutti avevano ben presente, che il regime totalitario dell’est fu un disastro, senza parlare dei suoi crimini. I nostri infatuati dai paradisi sovietici andarono in crisi. Alcuni, forse coerenti e molto cocciuti, rimasero avvinghiati a falci e martelli, altri, che avrebbero potuto optare saggiamente per una matura socialdemocrazia, fra ricredersi o travestirsi, scelsero il trucco. Intanto, i nuovi presidenti repubblicani, sul modello dei predecessori che arbitravano a favore del centrodestra, incominciarono a tifare per il centrosinistra. Del resto era ovvio, specie con un personaggio noto per aver approvato il massacro dei budapestini ad opera dei carri armati russi. Ora si esulta per un reincarico gattopardesco. In fondo, per saggezza siciliana, tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. Questa volta potrebbe essere peggio di prima, tutto è come prima e quasi di certo si cambierà in peggio. Al Presidente vanno il rispetto di tutti e l’augurio di riuscire a sopportare il calvario che lo attende, dopo la sceneggiata napoletana degli scatoloni del trasloco. Per ironia della sorte, dopo i presunti brogli nel passaggio da monarchia a repubblica, oggi abbiamo esperienza di presidenti con la corona da monarchi borbonici. Gli elettori da troppo tempo sono schifati dallo spettacolo indecoroso delle due camere, dai governi scelti senza i voti del popolo, dei colpetti di stato mascherati da esigenze di salute pubblica. A un certo punto hanno provato a protestare sedotti da giullari che promettevano di aprire le camere come scatolette di tonno. Ma costoro, entrati in quegli untuosi contenitori si sono inebriati al profumo dei ricchi stipendi e si sono uniti nelle incredibili beghe dei palazzi romani, facendo solo chiacchiere e purtroppo anche danni. Il popolo bue, che ricordiamolo significa castrato, da tempo commette l’errore di disertare le urne in segno di protesta, ma in tal modo, a meno che salti fuori un novello Garibaldi a mandare all’aria il Regno delle Due Sicilie, ci dovremo rassegnare a diventare il paese migliore del Nordafrica, con gli aiuti europei per i quali facciamo festa, dimenticando che si tratta di pesantissimi debiti. La casta, stiamone pur certi si mangerà anche quelli. Ah, dopo la frutta con prevalenza di banane a Roma si serve l’ammazzacaffè.
Umberto Mantaut