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Il Ministro U. formatosi a Ladispoli

Nei tempi bui bisogna distrarsi con storielle amene.
Verso la metà degli anni ’70 la scuola italiana era già a pezzi. Nelle grandi città gli studenti si riunivano in ciurmaglie “okkupate” in eterne assemblee inconcludenti, i docenti si erano trasformati in una categoria privilegiata con stipendio fisso senza nulla da fare. Solo in provincia le cose continuavano ad avere un senso. Le famiglie, meno snob di quelle “urbane”, spiegavano ai ragazzi che bisogna pur apprendere qualcosa nella vita e gli insegnanti esistono per questo. Costoro lavoravano ancora con passione, sotto la direzione di presidi severi. La attuale povera ministra accusata ingiustamente di volere la “distruzione dell’istruzione” non era ancora nata. Non c’era la scusa del Covid-19, il virus di quel periodo si chiamava “Autunno-68”.
Ladispoli era già multietnica, nel senso migliore della parola. I ragazzi stranieri fraternizzavano fra i banchi con i compagni locali. Un certo U., nigeriano, studiava per ottenere competenze da mettere poi a disposizione del suo povero paese, veniva dalla capitale di uno dei 19 stati della Repubblica federale nigeriana.
Gli esami di maturità erano già diventati una farsa ignobile. Il 36 minimo non si negava a nessuno, ma le commissioni, formate da docenti esterni con un presidente cerbero, fingevano di andare a caccia di lacune. C’era un membro interno in funzione di Cireneo che difendeva tutti, specie i somari, giocando con l’alibi della emozione da esami.
Il “nero” U. sostenne la prova di italiano con le incertezze di chi proviene da altra lingua madre, comunque non peggiori di quelle dei giovani locali di dialetto cervetero-ladispolano. Gli esaminatori gli riconobbero preparazione sufficiente e maturità di pensiero. La prova tecnica era rappresentata dalla “scienza delle costruzioni”. Il commissario, assai antipatico e sicuramente razzista, esordì dicendo “ora ci si diverte” e chiese al povero U, di progettare un ponte in legno, percorso da tre grosse scimmie con un carico esorbitante di noci di cocco.
Senza batter ciglio il candidato riempì un gran foglio di calcoli risultati esatti, dimostrandosi probabilmente più preparato di un certo Morandi. Tornò al suo paese con il bel diploma ladispolano a pieni voti.
Dieci anni dopo, mi trovo su un volo da Roma a Kano, ho come vicina una domestica triestina assai bruttina, in ansia, con la cintura allacciata e le mani strette al petto. Le chiedo se ha paura dei vuoti d’aria, lei racconta di essere preoccupata per i suoi risparmi trasmutati in dollari e nascosti nel reggiseno. La poverina, è in viaggio per andare a convolare a nozze con un ragazzo nigeriano musulmano, ben sapendo che lui ha già tre mogli, ma convinta di poter di poter essere la quarta favorita.
Il primo impatto con l’Africa nera non è dato dal calore soffocante e umido, né dal ronzio delle mosche che popolano gli intonaci scrostati e luridi degli edifici, bensì dalle mani, le troppe mani che afferrano i bagagli, manipolano passaporti, certificati sanitari, visti d’ingresso, biglietti aerei e moduli di sbarco. Tutti i documenti passano sotto feritoie di legno per finire su scrivanie sgangherate e banconi ingombri di cartacce, fra vecchi telefoni e antiche macchine per scrivere. Cento occhi bianchi osservano sospettosi e al tempo stesso stranamente indifferenti i nomi, i cognomi, le date e i timbri. A tratti tutto sembra sparire dietro le quinte di uffici allucinanti, ma allora grosse labbra rosee si schiudono in un sorriso di cioccolata, che dovrebbe essere accattivante se non ci fossero tutti quei denti troppo candidi e robusti. Alla fine, però, le carte sono restituite alla rinfusa. Pare un miracolo che ci sia tutto. Gli europei debbono affrettarsi allo sportello bancario, perché c’è l’obbligo di cambiare almeno cento dollari per le prime necessità in Nigeria. Se noi esigessimo le medesime formalità per gli africani in arrivo in Europa saremmo subito tacciati di assurda diffidenza e ignobile razzismo. L’operazione di cambio delle valute dura a lungo. La grassona della banca ha le dita troppo tozze e untuose e deve contare una montagna di naira, la moneta nigeriana, rappresentata da banconote luride di piccolo taglio. Finalmente, frastornati si esce con tutti quei soldi in mano e si colgono le occhiate d’invidia dei facchini e degli autisti, appostati a centinaia per offrire i loro servigi ai passeggeri. Costoro cento dollari li guadagnano a fatica in due mesi. Chi non ha un amico con autista e macchina dotata d’aria condizionata, probabilmente andrà incontro a molte altre traversie.
In attesa della sposa triestina ecco il giovane fidanzato, un aitante tuareg accompagnato da un brutto autista hausa. Dopo le presentazioni e sentendo che il ragazzo, parlante un perfetto italiano con accento giuliano, vive nella stessa città del famoso giovane U., gli chiedo se per caso lo conosce. Il ragazzo esclama: “certo che lo conosco, ma sarà difficile porgergli i suoi saluti, è inavvicinabile, ora è il nostro Ministro dei Lavori Pubblici, sa, un uomo preparatissimo, ha studiato a Ladispoli”.
Umberto Mantaut

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