Cammina, cammina, dopo diciannove ore di volo, tre scali, sette fusi orari, un lungo percorso in autobus e un traghetto su un barcone inverosimile, eccoci giunti sull’isoletta di Samosir. La scelta di questa località non è casuale. Qui si fa la conoscenza con l’incredibile popolo dei Batak, gente assai bella e fiera che al comparire dell’uomo bianco, per l’appunto gli olandesi, così bianchi che più bianchi non si può, si è ritirata in questo rifugio in mezzo ad un lago. Per ubicarci si cerchi con il dito sul mappamondo: Samosir è al centro del lago di Toba, il cratere più grande del mondo a nordovest dell’isola di Sumatra, la quale, grande più dell’Italia, è soltanto una delle tredicimilaseicento isole dell’Indonesia, un arcipelago di smeraldo nelle acque blu dell’oceano Indiano. I Batak vivevano beatamente in tutta la regione del lago di Toba con la loro cultura millenaria a nostro avviso selvaggia, ma non volevano per nulla al mondo “convertire” le loro abitudini, tra le quali l’antropofagia. La ricetta più in voga era la seguente: legare la preda al palo al centro del villaggio, scegliendo il più grassoccio fra nemici, individui socialmente pericolosi e iettatori, tagliarlo a fettine badando a non farlo morire, concedere il primo assaggio al re e alla regina, preferendo la carne estratta dal palmo delle mani, immersa in un intingolo a base di limone, sale e pepe, liquido che a Roma si chiama pinzimonio o cazzimperio, ma serve da noi solo per verdure crude, evidenziando come le sane ricette esotiche siano snaturate da inesatte traduzioni e impropri adattamenti. I missionari olandesi, finiti spesso come antipasti in quei banchetti rituali, convinsero i Batak a cambiare dieta, ma questi ultimi, per non cedere del tutto alle nuove mode, pur fingendo di abbracciare la nuova religione che sostituiva ostie alle fettine e vino al posto del sangue, decisero di fuggire in massa al centro del lago di Toba, sull’estesa isola che lo occupa in gran parte e garantisce un buon isolamento dallo strano mondo dell’uomo bianco. Da circa settanta anni non si sono più ripetute le tradizionali cene cannibalesche. Nelle gabbie un tempo destinate ad ingrassare le vittime umane si tengono bufali con i quali il rito si ripete, sebbene gli abitanti sostengano che la carne sia meno prelibata. Se un anziano del villaggio ti guarda e cerca di palparti i glutei non bisogna equivocare. Il vegliardo non è mosso da strane concupiscenze, ma pensa al buon tempo andato con l’acquolina in bocca. Superate le perplessità, i primi contatti con il popolo Batak sono estremamente rilassanti, in un’atmosfera fiabesca. I nomi dei villaggi sono deliziosi (Tomok, Tuk-Tuk, Simanindo, Ambarita), le case, sollevate da terra, intagliate e dipinte mirabilmente hanno tetti aguzzi di paglia di riso. In un unico ambiente diviso in zone possono vivere più famiglie, in perfetta armonia e con la dispensa in comune. Intorno, alberi giganteschi con radici nodose che sporgono dal suolo come draghi creano provvidenziali macchie d’ombra sul sottobosco trapunto di fiori tropicali. A Samosir, bimbi bellissimi tutti nudi giocano con l’acqua sporcandosi di fango, ma le madri non li rimproverano come da noi con richiami striduli. Le belle donne dal volto sereno li osservano dalle capanne e se vedono un forestiero avvicinarsi lo invitano ad accomodarsi in casa, con un grazioso cenno di benvenuto e una parola misteriosa, appena bisbigliata, horas, che vuol dire Dio ti protegga. Gli uomini prestanti lavorano la terra e pescano senza affanno. Gli anziani sono assai rispettati e considerati pozzi di saggezza. Ogni villaggio è un piccolo reame con i sovrani che si distinguono per il loro abbigliamento, ma sono così semplici da vivere in mezzo ai sudditi come cittadini comuni e salutare gli stranieri con molta cordialità. Tutto è fermo a mille e più anni fa, perché i Batak hanno capito che la loro vita primitiva non è un punto di partenza ma un punto d’arrivo. Qualsiasi cambiamento non può essere che in peggio. Il pericolo viene dai bimbi curiosi. Crescendo possono guastarsi. E’ già arrivata l’orrenda TV insieme ai telefoni ed altre diavolerie nelle case banali che circondano la zona dell’imbarcadero. Nelle vicinanze c’è il primo albergo di capanne fasulle per i turisti armati di cineprese e rotoli di banconote per invogliare ai vizi. Dovremmo restare qui, imparare la lingua e spiegare ai giovani che il nostro progresso genera un mare di spazzatura, ingorghi stradali, nevrosi da ricovero in clinica psichiatrica, ansia da shopping e orari tascabili delle linee aeree per andare poi a cercare gli ultimi paradisi. Se è vero che chi si ferma è perduto, chi si muove da qui rischia di non ritrovarsi più.
Umberto Mantaut