Nel lontano e in un certo senso fatidico anno 1999, gran parte dei passeggeri dell’astronave Terra vivevano col fiato sospeso. Superstiziosi e pessimisti temevano l’avverarsi di certe catastrofiche profezie secondo le quali nel nuovo millennio si sarebbe verificata la fine del mondo e già nei primi mesi del 2000 avremmo avuto le terrificanti avvisaglie. Al contrario, gli ottimisti salutavano senza rimpianti il disastroso ‘900, teatro di ben due guerre mondiali, dell’imperversare in Europa di due mostruose dittature in Germania e Russia con milioni di vittime, senza contare i regimi totalitari in Italia e Spagna, per finire con lo spettacolo agghiacciante dei funghi atomici delle bombe sganciate sul Giappone dagli ineffabili americani. In quell’anno di attesa il mondo attraversava un periodo di relativa tregua. L’evento più saliente, forse, riguardava il Medio Oriente. Pur fra diffidenze e sospetti reciproci, Israele e Giordania avevano riaperto i valichi di frontiera, a nord fra Trasgiordania e Galilea e a sud sul mare fra Aqaba ed Eilat. La prova della percezione di una relativa sicurezza la diedero le compagnie di viaggio specializzate in pellegrinaggi di cristiani in Terra Santa. In quei tempi si preferiva volare con la compagnia reale giordana e avere come base la bella e tranquilla capitale Amman. Molti viaggiatori potevano approfittare del pellegrinaggio religioso e aggiungere l’esperienza della visita delle meraviglie della Giordania, oltre ad Amman, con vestigia dell’antica Philadelphia romana, la sorprendente città rosa di Petra, gli scavi della romana Jarash, il Sacro Monte Nebo e il fantastico deserto di Wadi Rum. Dunque, in quei tempi, Israele si poteva tranquillamente raggiungere via terra dalla Giordania, attraversando il fiume celeberrimo sul ponte dello Sceicco Hussein con un sofisticato posto di frontiera fra i due paesi. Le terre giordane degradanti verso la valle del Giordano sono ritenute da Amman un giardino spontaneamente generoso di frutti a causa del clima delizioso, ma nella vicina Israele si noterà che gli ebrei sono stati capaci di far fiorire il deserto ricavandone straordinari e doppi raccolti. Al controllo passaporti nella dogana giordana le pratiche si svolgono con facilità e indolenza. Gli impiegati, tutti uomini, si comportano come i colleghi romani negli uffici pubblici. Discutono fra loro probabilmente di cose futili, osservano con noia i documenti e con lentezza esasperante li restituiscono con un cenno di via libera. Al contrario, imitando per stupidità i loro colleghi statunitensi, i gendarmi di Israele, quasi tutti donne armate e in severa divisa, ispezionano e controllano tutto con una antipatica grinta inquisitoria. Fanno domande del tipo: “Siete venuti per compiere attentati? Avete armi? Droghe? Pacchi esplosivi?“. Viene voglia di esibire i rosari. Le doganiere agli sportelli si mostrano contrariate, perché nessuno vuole sul passaporto il timbro d’ingresso in Israele, che pregiudicherebbe i viaggi in quasi tutti i paesi musulmani del mondo. Alla fine però mettono il timbro sul solo foglio del visto e lasciano passare i pellegrini nell’agognata Terra Santa. In Galilea ci si accorge subito che le attività agricole sono cosa seria, con risultati sorprendenti. Non un solo metro quadrato di terreno agricolo risulta incolto e le fattorie hanno tutte una rigida organizzazione e si chiamano “kibbutz”, colonizzando le terre fin sotto le pendici delle alture del Golan, dalle quali pare non si debbano più temere i bombardamenti siriani. Una lunga sosta, con occhi aperti, in un kibbutz è importante per un primo contatto con l’orgogliosa società israeliana. Nella fattoria sociale si realizza una sorta di cooperativa integrale, dove il movente del collettivismo non è la fallimentare ideologia marxista, bensì la fede comune e l’esigenza di difendere tutti insieme la terra promessa riconquistata con il beneplacito dell’ONU. Nel kibbutz di Ein Gev, sulle rive del grande lago di Tiberiade, centinaia di bovine olandesi ruminano ben pasciute, i palmizi offrono scuri datteri gonfi e succosi, gli orti e i frutteti industriali, di una razionalità meticolosa, alimentano le esportazioni. Gli israeliti, giunti con entusiasmo in Terra Santa da ogni contrada del mondo, ma soprattutto dai paesi occidentali, vi hanno trasferito il migliore know-how, non disgiunto da una buona dose di astuzia ed abilità finanziaria. Bisogna riconoscere agli ebrei grandi capacità e notevole intelligenza, mentre l’atavica presunzione d’essere un popolo eletto, anche se a noi appare un po’ antipatica, giova loro fortificandoli nel carattere e nella perseveranza. Ad Ein Gev si pratica ciò che si potrebbe chiamare un agriturismo di massa, con tanto di ristorante per centinaia di ospiti, shopping centre e noleggio di natanti nel piccolo porto sul lago. Purtroppo occorre abituarsi al fatto che qui nel rapporto commerciale si alzano molto i prezzi, si lesina sulle porzioni e alla cassa si manifesta una vera e propria sofferenza nel dover dare il resto, che, se non si sta attenti, viene distrattamente dimenticato. Qualche pellegrino genovese, sentendosi punto sul vivo, si affanna a ricordare che non si tratta del difetto dell’avarizia bensì della grande dote della parsimonia alla quale si deve la prosperità della superba Genova e dei nostri fratelli ebrei. Questi prosaici approcci con Israele vengono ben presto lasciati alle spalle sbarcando a Cafarnao. Non può essere una suggestione! La sponda sacra del lago di Genesaret trasforma per incanto viaggiatori e turisti vocianti in pellegrini compunti. I siti sono avvolti da un mistico silenzio, rotto solamente dalla risacca del lago e dallo stormire del vento fra gli ulivi. Della casa di Simon Pietro restano poche tracce di fondazioni in un recinto archeologico trasformato in memorial. Cristo visse in questi luoghi molto tempo, sfamando la folla lacera dei suoi seguaci moltiplicando i pani e i pesci nell’insenatura pietrosa di Tabga. Dall’occidente consumista e dimentico dei valori, esclusa la quotazione del dollaro, si giunge qua per sentirsi dire che l’amore è possedere quattro pani e due pesci che assumono enorme valore solo nel momento in cui si decide di distribuirli agli altri. Su uno scoglio Pietro ricevette il primato. La scelta del primo vicario di Cristo rappresenta l’origine della Chiesa bimillenaria. Intorno, erbe, cespugli ed alberi della macchia non sono più quelli dei tempi di Gesù. Forse qualche ulivo secolare discende da antenati che offrirono ombra e refrigerio al Redentore, oppure è rigermogliato da antichissime radici. Le greggi pascolano ancora sulle pendici del Monte delle Beatitudini, ma qualsiasi agnello, interrogato su quelle divine sentenze, risponderebbe: “ Tunc natus non eram!”. Dal mondo vegetale e animale non può, dunque, irradiarsi lo strano magnetismo che si avverte in Terra Santa. Dev’essere una traccia rimasta sulla roccia, nei ciottoli delle rive del lago di Genesaret o sulla sabbia calpestata da Cristo. Assai prima della vita, Dio ha creato i minerali, perfetti nella geometria dei loro sistemi, con cristalli puri, dove molecole ed atomi vibrano come microuniversi. Dunque, è possibile che in Palestina i minerali siano i depositari di un eterno messaggio, che nessun essere vivente potrebbe perpetuare, perché i viventi sono fragili, imperfetti e mortali. Chi mette piede in Terra Santa avverte una voce misteriosa che viene dalle pietre. Soave e al tempo stesso imperiosa invita a meditare e a pregare. Colpisce in Israele la cura che si riserva ai luoghi santi dei cristiani, tenuti benissimo e fatti visitare da personale locale preparato. Non è solo per i concreti vantaggi economici portati dal turismo dei pellegrini, si comprende il rispetto che gli ebrei hanno per noi, che come loro siamo monoteisti con solide basi comuni per consuetudini e fede. Con loro dialoghiamo alla pari perché la nostra è un’unica civiltà giudaico-cristiana. Il viaggio lungo la costa mediterranea conferma gli enormi progressi apportati dal lavoro ebraico a regioni un tempo desertiche, soprattutto con la diffusione della agricoltura di eccellenza dei kibbutz. La bianca città di Haifa si è trasformata nello scalo marittimo vitale per Israele e Tel Aviv ha il superbo aspetto di un centro direzionale di una metropoli americana. Solo a Gerusalemme si ritrovano tracce e prove che dovrebbero condurre a una forma di convivenza pacifica fra i fedeli delle tre religioni monoteiste, ma non si può negare che nella capitale israeliana si avverta una notevole tensione. L’incantevole panorama della città santa è dominato dall’enorme cupola aurea della Moschea Qubbet es-Sakhra, più nota come Cupola della Roccia o Moschea di Omar. Il magnifico monumento musulmano occupa il centro della Spianata del Tempio, accanto all’antica e non meno sacra Moschea El-Aqsa, con sette navate che la rendono simile ad una cattedrale cristiana. Specie il venerdì una folla compunta di musulmani raggiunge le moschee per la preghiera e la adorazione di Allah. Pochi metri più in basso, il terrapieno della spianata è sostenuto da un residuo antichissimo delle fondazioni del Tempio di Salomone. E’ il Muro del Pianto, luogo sacro per gli ebrei. A centinaia, ad ogni ora del giorno, si affollano a toccare le sante pietre, vi appoggiano il capo raccogliendosi in preghiera, alcuni con il volto rigato di lacrime. E’ una scena toccante, che lascia meditabondi circa la potenza della fede in Jahvè: Colui che è. La religione ebraica tiene strettamente uniti bianchi slavi, neri etiopi ed arabi olivastri. Si sentono e sono tutti ebrei, smentendo un infame pregiudizio razziale. A pochi passi dai siti sacri per israeliti e musulmani, la Basilica del Santo Sepolcro richiama i fedeli cristiani, credenti in un Dio, uno e trino. Gerusalemme, come faro di riferimento per le tre religioni monoteiste, è a buon diritto considerata la Città di Dio. Un Dio solo, viene da pensare, con tre nomi diversi, ma con forme di fede, purtroppo, in conflitto fra loro. Nei secoli, in nome del Signore, creatore dell’universo, padre dell’umanità e sinonimo di amore, si sono perpetrate le peggiori atrocità; dal deicidio, nel tempo della Pasqua dell’anno 33, alle Crociate contro gli “infedeli”, dagli orrori della Santa Inquisizione al terrorismo degli odierni integralisti islamici. Tutti accorrono a Gerusalemme per pregare devoti, portando in cuore l’ostilità per gli altri credenti. Ne ripartono con la segreta speranza che, un giorno o l’altro, il Dio “vero” prevalga, incenerendo, magari, con sacrosante saette gli avversari d’altra fede. A ben pochi viene in mente che il 2.000 potrebbe essere un’occasione di riconciliazione, partendo da un elementare sillogismo: Non ci possono essere tre monoteismi, ammettendo l’esistenza di un unico Creatore. Uscendo dalla splendida Gerusalemme, lungo la via per Betlemme si incontra un’altro odioso posto di controllo. Betlemme è rimasta come ai tempi della nascita di Gesù e si trova in area destinata ai palestinesi. E’ un presepe. E’ povera e polverosa, con le case bianco-rosee allineate, in pittoresco disordine, lungo strade disselciate, sui fianchi di colline siccitose. Gli abitanti palestinesi, agricoltori, pastori e artigiani del legno e della madreperla, vivono ancora in una dignitosa miseria. Per comprendere qualcosa conviene dialogare con un padre di famiglia che ha aperto una botteguccia di souvenir per cristiani: croci, rosari, presepi. Lui si dichiara fiero di poter sfamare i figli con una attività privata e libera, ma invita a notare qualcosa di sconcertante. Ogni mattina, molti palestinesi laceri giungono al posto di controllo a bordo dei loro veicoli sinistrati, li lasciano in appositi parcheggi, fanno colazione in fumose cucine all’aperto, poi, in fila, controllati con sospetto uno ad uno, raggiungono gli autobus moderni, israeliani, i quali li trasportano nei cantieri di lavoro. La sera stessa scena al contrario. La paura ebrea degli attentati è, evidentemente, minore di quella di perdere tanta manodopera a buon mercato. Ovviamente, i turisti, che portano valuta pregiata, passano in corsie preferenziali, senza essere molestati. Il tenore di vita israeliano è simile al nostro, enormemente superiore a quello palestinese, ma gli ebrei non lo ostentano per la loro natura sobria e prudente. L’invidia è madre dell’odio che fomenta propositi omicidi. Ai palestinesi giungono aiuti consistenti dai paesi musulmani, che tuttavia non li accolgono bene in casa loro, basta ricordare cosa è successo in Libano e Giordania. Anche l’occidente cristiano collabora. Purtroppo quel fiume di dollari non migliora la vita di quel povero popolo. I loro feroci responsabili investono in armi per tentare di raggiungere il mai nascosto obiettivo: annientare Israele, prima o poi. Ecco perché uomini e donne in Israele sembrano sul chi vive e sorridono poco. Solo all’estremo sud, ad Eilat, la gioventù sembra godere dei divertimenti di una calda stazione balneare. Le finestre degli alberghi si affacciano sull’araba città giordana di Aqaba. La frontiera è aperta, il lungo e istruttivo viaggio è finito, si corre verso Amman sull’autostrada del deserto che ricalca il tracciato della strada romana che collegava le prosperose colonie consolari della Dodecapoli.
Umberto Mantaut