Continua il garbato e piacevole racconto delle esperienze vissute in giro per il mondo da Umberto Mantaut, e mai come ora sono di attualità le narrazioni relative all’Afganistan.
Da decenni la scuola italiana non insegna più nulla, men che meno in storia e geografia. Pertanto, un italiano medio deve avere qualche difficoltà ad ubicare l’Afghanistan in quello sterminato territorio di montagne impervie dell’Asia centrale. Chi scrive ha perso a suo tempo l’occasione per andarci ed ancora se ne rammarica, ma almeno e sia pure molto superficialmente ha avuto contatti con afghani e qui rammenta le curiose esperienze, sebbene non siano sufficienti a capire a fondo un popolo tanto lontano da noi e tanto complesso nella sua realtà di coacervo di tribù montanare in disaccordo fra loro. Vivono per organizzazione sociale, tradizioni, cultura e religione in qualcosa di molto simile al nostro medioevo, che per certi strascichi di nostre vecchie mentalità non è neppure ancora finito da noi, pertanto prima di sputare sentenze abbiamo il dovere di rispettare e cercare di capire.
Una famiglia afghana a Firenze – Anni ‘60
La figlia maggiore di un collega fiesolano di origini svizzere sposò un compagno di università afghano. Entrambi architetti benestanti e progressisti vivevano negli agi a Firenze, ma il padre di lei, vagamente razzista, chiamava il genero “il cammello”. Era un bel giovane alto, barbuto e olivastro, con moglie esile e bionda. Come sempre nelle unioni fra razze diverse misero al mondo un bimbo bellissimo color caffelatte con occhi nerissimi e una spruzzata di cioccolata amara sui capelli, proprio come sui cappuccini squisiti che ancora si servono in certi bar eleganti del nord d’Italia. Fu chiamato Omar e affidato alle cure e alla educazione rigidamente musulmana della nonna di Kabul. I nonni italiani lo chiamavano Omarino, ma presto eliminarono l’estranea “o” iniziale e lo ribattezzarono Rino, sperando magari nella protezione di San Marino. La coppia, oltre alla professione, commerciava in tappeti di importazione. Durante gli inviti a cena a casa loro notai la presenza di un magro ragazzo sempre immobile in piedi allo stipite di una porta. Ad un cenno dei padroni si precipitava per svolgere vari servizi. Mi informai. Era un “servo”, ma la parola giusta era schiavo. Mi spiegarono che le famiglie ricche afghane, proprietarie di terre, avevano vari diritti anche sul personale dipendente oltre al vantaggio di vivere di rendita, poiché i loro contadini dovevano versare ai padroni una decima chiamata “ushur”. Il povero ragazzo in sostanza era entrato in Italia praticamente insieme al bagaglio familiare. Osai ricordare che quando gli schiavi si ribellano è tutto un affilare di coltelli, ma il loro sistema sociale in quei tempi sembrava immutabile. Alla osservazione risposero col sorriso di sufficienza tipico dei ricchi. Il fratello della sposa, editore a Roma, mi propose insieme ad altri amici l’affare del secolo. Stupidamente rifiutai, poco propenso ad andare a conoscere Kabul e quel paese a mio avviso pericoloso. Compravano alcune auto di lusso usate di grossa cilindrata, formavano una carovana, si imbarcavano a Brindisi per Patrasso, attraversavano tutta la Grecia, l’Asia minore e l’Iran, affrontando grandi difficoltà. A Kabul rivendevano le auto in dollari al quadruplo del prezzo romano e tornavano in aereo in prima classe, per formare un nuovo convoglio. Descrivevano Kabul come la immaginavo: una caotica capitale asiatica con politici inaffidabili, funzionari corrotti, traffici non tutti leciti e mafie, quasi come Roma e Palermo. Di occidentale, la capitale afghana conservava tracce della influenza della dominazione inglese finita nel 1919, senza lasciare come in tutte le excolonie britanniche una classe dirigente all’altezza di autoamministrarsi modernamente. Le tracce semmai erano negative, come lo snobismo dei ricchi e la tendenza a sfruttare natura e uomini. L’Afghanistan è prevalentemente un mondo di tribù montanare, fiere, ma difficili da organizzare come nazione moderna. Ha immense ricchezze nel sottosuolo e un suolo povero come tutte le terre montane dure da dissodare, adatte per una economia silvopastorale e una vita molto difficile per gli abitanti. Si aggiunga a ciò la religione musulmana vissuta nelle sue forme più rigide e qualcosa si comprende della situazione di quei popoli. A Firenze nel 1969 si poteva ancora incontrare la bionda sposa dell’afghano a passeggio in Piazza della Signoria con la bella chioma raccolta sotto il velo. Nel ’70 la famiglia preferì trasferirsi a Kabul ritenuta capitale di un regno tranquillo dove i ricchi potevano vivere meglio che in Italia, specie se proprietari di latifondi. Stendiamo un velo pietoso su ciò che accadde a partire dal 1973 alla caduta dello Shah Zahir, anzi entriamo in un burka nero con la finestrella per cercare di vedere cosa accade oggi là fuori.
Un talebano in business class – Gennaio 1990
Un paio d’ore a stretto contatto di gomito con un talebano non sono certo sufficienti per capire qualcosa di quella mentalità, ma una vaga idea è pur sempre meglio di nulla. Il contatto di gomito in effetti non ci poteva essere. Si stava seduti accanto per caso su due larghe poltrone di prima classe su un jet di linea in sevizio fra Karachi e Islamabad in Pakistan. Occorre precisare che viaggiare in prima classe sulle linee interne asiatiche non è uno snobismo ma una necessità. Sulla classe economica praticano di solito l’overbooking, cioè vendono più biglietti dei posti disponibili e all’imbarco accadono cose turche con i passeggeri che vengono lasciati a terra. A bordo poi, nonostante l’aria condizionata, si respira male per gli odori di troppe vesti sudate, fagotti, cibarie ed anche animali vivi, ammassati fra i sedili. La barba nera e le vesti tipiche non riuscivano a nascondere la giovane età del passeggero che, forse proprio perché molto giovane era curioso. Attaccò lui bottone. Voleva sapere se ero europeo o arabo. La perenne abbronzatura aiuta molto a confondere le idee. Sorprendentemente il ragazzo sapeva molte cose dell’Italia, era di famiglia afghana ricca di Herat, aveva studiato a Londra. Disse tranquillamente di essere un “partigiano” talebano in missione nel Pakistan amico per ottenere aiuti e protezioni per la sua “giusta” causa. Dal febbraio 1989 i russi invasori dell’Afganistan si erano ritirati dopo un decennio di cruenta aggressione stile Budapest, non sconfitti, semplicemente impotenti con i loro mezzi moderni e uomini addestrati e contrastare i talebani in lotta fra le montagne impervie della regione settentrionale. I racconti mi ricordarono le gesta di un’amica piemontese che a sedici anni, protetta dall’aspetto innocente, faceva la postina portaordini fra i nostri partigiani nascosti nelle alte valli cuneesi in attesa di ricevere gli ordini dalle basi di pianura, annidate fra i campi di mais, con pochi mezzi e molto eroismo per cacciare dal nostro paese le milizie nazifasciste occupanti, feroci come quelle comuniste in Afghanistan. I talebani volevano impedire l’avvento della democrazia di tipo sovietico, meglio nota come dittatura del proletariato e relativo ateismo di stato fra i fedeli musulmani di rigida osservanza. La fuga precipitosa dei russi non li aveva comunque tranquillizzati circa le intenzioni dei governi fantocci di Kabul e le mire di altri esportatori di democrazia, specie gli americani che si ritengono i gendarmi del mondo non capendo nulla di geopolitica. In due parole confesso che ricordo quel talebano con simpatia. Del resto “talib” significa studente nei dialetti di origine persiana e da che mondo è mondo molte vicende sono legate ai fermenti studenteschi. I talebani purtroppo sono integralisti con la pretesa di ripristinare e imporre la vecchia cultura, la tradizione maschilista e la religione islamica nelle sue regole più rigide. Il talebano mi mostrò i suoi due passaporti, afgano e pakistano, entrambi con data di nascita riferita al calendario maomettano. Loro hanno date corrispondenti al nostro “bel” tempo andato, quando da buoni cristiani sulle pubbliche piazze arrostivamo i presunti eretici con contorno di vecchie proprietarie di gatti neri, ritenute streghe. Poi siamo arrivati alle farlocche democrazie attuali considerando un bel salto verso la civiltà il taglio delle teste con la illuministica ghigliottina sulla piazze di Parigi e i massacri progressisti dei contadini russi che non volevano la collettivizzazione delle terre. Parlando di donne, come spesso avviene fra uomini anche per ammazzare la noia sui voli, il talebano sostenne che da loro la donna è molto rispettata. Deve occuparsi solo della “home”, casa, lavori domestici e prole, mentre le nostre madri di famiglia, dopo la libertà dell’istruzione, hanno la schiavitù di lavorare per portare a casa il secondo stipendio. Ognuno accampa le ragioni sue.
Che fare ora?
Se per un talib era insopportabile l’idea del suo paese invaso dai russi, altrettanto inaccettabile fu la presenza americana ammantata dalla scusa di ammodernare il paese, dotarlo di governi filoccidentali, addestrare un esercito nazionale regolare, educare ed emancipare le donne e piazzare trivelle nel ricco sottosuolo. Con dollari e armi moderne sembra tutto facile, specialmente corrompere, comandare e sfruttare. Si arriva alla serie infausta degli ultimi tre presidenti USA, uno peggio dell’altro, orientati al disimpegno in un Afghanistan che incominciava a costare troppo e dava illusorie garanzie di poter proseguire da solo nella modernizzazione su modello occidentale, digerito solo da una piccola parte della popolazione locale. Dall’abbronzatura esibita come garanzia di pacifismo alla demenza senile, passando dal ciuffo tinto di giallo del tycoon, si arriva alla figuraccia planetaria nella quale siamo coinvolti anche noi, tonti utili. Dal dopoguerra siamo sempre agli ordini dei liberatori d’oltre oceano. Che possiamo fare? Intanto piangere per gli oltre cinquanta nostri valorosi mandati al macello inutilmente, armati fino ai denti, ma con l’ordine di lasciarsi sparare addosso dai talebani. Poi rimpiangere i miliardi gettati al vento delle montagne afgane per alfabetizzare le povere bambine locali, mentre nelle nostre scuole fatiscenti i soffitti cadono a pezzi sulle teste degli studenti e ora accogliere, non in maniera indecente come i finti profughi dei barconi, gli incauti afgani che hanno collaborato con noi nella illusione che fossimo un po’ più seri degli americani ed ora rischiano di essere passati per le armi dai “partigiani” scesi dai monti. Nel nostro dopoguerra accadde in pianura padana ai collaborazionisti del fascio e dei tedeschi. Alle italiane sospette non fu imposto il velo. Le rapavano a zero e le portavano in giro nei paesi su carrette scoperte fra le risate della folla, improvvisamente diventata tutta antifascista. Dalle poche femministe del tempo e dalle troppe di oggi silenzio assoluto. Non ci si strappa i capelli tagliati alla maschietta e non ci si straccia tanga e minigonne se le “femmine” sono bistrattate e rapate da talib rossi o ricacciate nel burka da talib islamici. Non è politicamente corretto. I maschietti nostrani, specie quelli che hanno studiato sicuramente meno di un qualunque talib, stanno sul ramo a guardare da bravi camaleonti. Devono scegliersi un nuovo colore. Qualche centinaio di metri sotto le poltrone del potere a Kabul c’è troppo litio, che vale più del platino. In fondo coi talib si potrebbe trattare e poi rischiamo. Se i talebani non riusciranno a controllarli certi terroristi annidati in Afghanistan potrebbero mettere bombe nella capitale dei cristiani o riprovarci con le torri di New York. L’unica cosa saggia sarà, alle prossime proposte americane di esportare la democrazia anche con uomini e soldi nostri, far risuonare un sonoro vaffa grillino, mai stato tanto opportuno da quando è diventato un’espressione elegante.
Umberto Mantaut