Tanto tempo fa, “oc ye nechca” come dicevano gli aztechi, Tenochtìtlàn era una città mirabile. Capitale del Cem-Anahuac, l’Unico Mondo fra le Due Acque, costruita su isole nel grande lago Texcoco, era una Venezia con monumenti paragonabili solo a quelli dell’antico Egitto, di Atene e di Roma. Al centro della straordinaria metropoli precolombiana si ergevano altissime piramidi tronche, templi, statue colossali, altari, palazzi principeschi, residenze sontuose di sacerdoti e funzionari, edifici pubblici giganteschi con fregi d’arenaria scolpita e argento massiccio, affacciati su piazze vastissime, pavimentate di marmo bianco. Intorno, canali, acquedotti e grandi arterie sopraelevate assicuravano i collegamenti con i santuari suburbani e le città satelliti, laboriose, piene di mercati, straordinariamente pulite e pianificate con criteri urbanistici molto razionali. Le varie parti della capitale azteca avevano nomi che si ritrovano ancora oggi, ma che sono difficili da ricordare e pronunciare: Texcoco, Tlatelolco, Coyohuacàn, Acachinànco, Ixtapalàpan, Xochimilco. Il popolo azteco era fiero della capitale e dell’impero, che aveva raggiunto un altissimo livello di civiltà sviluppando una cultura avanzatissima soprattutto nei campi dell’astronomia, dell’architettura e dell’agricoltura. Commerci e scambi fiorivano fra il mondo azteco e le civiltà precolombiane limitrofe, anch’esse d’antica tradizione culturale maya, olmeca, tolteca e tzapoteca. I governi erano saldamente nelle mani della classe sociale più colta, ricca ed evoluta. Si teneva conto del giudizio degli anziani dispensatori di saggezza. La casta sacerdotale imponeva il culto di varie divinità al popolo sottomesso e pavido, ricorrendo a riti sanguinari. Non si disdegnavano i sacrifici umani per propiziarsi la protezione degli dei e mantenere privilegi. Sulle “mensole” dei templi figuravano collezioni di teschi di vergini, nemici e oppositori, sacrificati estraendone i cuori dal petto con pugnali rituali di ossidiana affilata. Come moneta s’usavano i semi di cacao. L’alimento base era il mais, pianta sacra, capace di offrire più raccolti l’anno sulle terre fertili dell’altopiano. Il clima a Tenochtìtlàn era umido, ma temperato gradevolmente dalla grande altitudine sul livello dei due oceani d’occidente e d’oriente. A est della città incombevano due giganteschi vulcani incappucciati di bianco, tanto che gli aztechi si potevano concedere il refrigerio di gustosi sorbetti ottenuti con la neve allo sciroppo, presentati entro rotoli di foglie aromatiche. Anche ai monti si assegnavano nomi complicati e fantastici: Popocatépetl, la montagna che fuma, Itzaccíhuatl, la dama addormentata. Dai valichi altissimi fra gli spaventosi crateri fumanti, un triste giorno dell’anno 1519 d.C., si affacciarono sulla città lacustre le truppe dei “conquistadores” guidate da Hernàn Cortés. Nel calendario azteco, quell’anno fatale era atteso come data profetica del ritorno dal mare d’oriente del dio serpente Quetzalcóatl. L’ultimo re degli aztechi, Montezuma II, accolse gli invasori con tutti gli onori dovuti ad esseri divini, accorgendosi troppo tardi dell’inganno che gli costò la corona, la vita, la distruzione dell’impero e della sua capitale. Le cronache dell’epoca descrivono lo sbigottimento dei primi europei giunti nel nuovo mondo al cospetto d’una civiltà inimmaginabile. Purtroppo, però, gli spagnoli avevano due soli desideri: arricchirsi e catechizzare. Ovviamente la ricchezza veniva al primo posto e per conseguirla occorreva ingannare le autorità locali, razziare, depredare, saccheggiare, massacrare, stuprare e distruggere. Pochi anni dopo la “conquista” di Tenochtìtlàn non restava pietra su pietra. Tuttavia, l’arrivo dei missionari al seguito dei “conquistadores” fu più nefasto di quello della soldataglia sudicia e barbuta, giunta dal mare d’oriente a bordo di velieri, scambiati dagli indigeni per “alati” vascelli divini, portatori di messaggi positivi. Un vescovo inquisitore apostolico, scrivendo a Sua Maestà Cattolica in Spagna, spiegava che imporre “ la vera religione agli Aztechi era lungi dall’essere facile e rapido”, perché “ gli Indios non possono udire se non attraverso le natiche”. Per l’esattezza, non si trattava di sculacciarli, bensì di farli ragionare a capo chino di fronte agli spaventosi strumenti di tortura importati dagli inquisitori e agli innumerevoli roghi sui quali s’incenerivano i pagani recalcitranti. Gli aztechi, per quanto abituati ai loro sacerdoti nero vestiti, poco attenti all’igiene personale e assetati di sangue, capirono ben presto che i nuovi portatori della “vera” fede erano ancor più temibili. Sostituirono Quetzalcóatl con la nuova divinità, senza stupirsi della corte di figure sacre minori, capaci di occupare tutti i giorni del calendario, cadenzato da nuovi riti, feste e processioni assai folcloristiche, perciò molto gradite dal popolo. Intanto, la furia iconoclastica dei fanatici, giunti al seguito delle truppe spagnole, partecipò all’eliminazione di statue, immagini, bassorilievi, dipinti, scritti, lapidi e interi complessi di templi, con l’intento caparbio di cancellare persino la memoria storica di popoli che avrebbero avuto molto da insegnarci. Fu un’operazione orrenda che non fa onore agli europei cristiani. Di Tenochtìtlàn non rimangono che il nome e pochi ruderi. Il lago prosciugato è occupato da Città del Messico. Il mostro urbanistico ha divorato quasi tutte le vestigia azteche, ma, come il coccodrillo con lacrime tardive, oggi si preoccupa di salvare i pochi resti ancora riconoscibili. Dei giganteschi templi non restano che poche tracce di fondamenta, riscoperte e poste in evidenza nelle stazioni della metropolitana. Inoltre, nella Plaza de las Très Culturas, gli scavi hanno riportato alla luce pochi ruderi di mura azteche, al centro, mentre su un lato una chiesa coloniale barocca ricorda che anche qui “ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”. Infine, il lato più lungo della spianata è occupato da palazzi moderni di edilizia economica e popolare, che danno un’idea di quanto siamo scesi in basso. Della Venezia azteca si è salvato un solo quartiere nella parte meridionale della megalopoli. Ancora oggi si chiama Xochimilco. Nell’antica lingua locale significava “Giardino fiorito”. Per raggiungerlo e goderne occorre disporre di tempo, energia, buona volontà e salute. Xochimilco è uno di quei luoghi che bisogna visitare in libertà, evitando accuratamente i gruppi organizzati e guidati da addetti al turismo che evidenziano le banalità e non permettono di cogliere l’anima del sito. Dall’albergo si prende, per un breve tratto, uno di quegli autobus urbani che i messicani chiamano “camiones”, assai sgangherati, ma che hanno il vantaggio di costare pochissimo e di avere salvifiche correnti d’aria attraverso i finestrini senza vetri. Occorre ricordare che “un breve tratto” a Città del Messico corrisponde ad almeno sette chilometri a passo d’uomo nel traffico. Si arriva alla più vicina stazione della sotterranea, chiamata Insurgentes. I treni arrivano già stracolmi da Chapultepec. A Pino Suarez si cambia linea in direzione di Taxqueña, su convogli al limite della saturazione, provenienti da Tacuba e dal centro storico. In tutto si viaggia come sardine in scatola per più di un’ora. La metropolitana di Città del Messico è stata costruita dai francesi con le tecniche e i materiali rotabili usati per il moderno metrò parigino, ma senza badare alle differenze climatiche e all’incredibile affollamento delle linee. I treni gommati e silenziosi producono calore e pulviscolo. Nelle stazioni e nelle vetture l’aria è irrespirabile. L’altitudine della città riduce la disponibilità di ossigeno e la temperatura nei tunnel aumenta di un grado ogni anno, partendo da 40, con un’umidità al limite della saturazione. Ogni tanto un viaggiatore s’accascia, nella generale indifferenza. Accorrono gli inservienti con la bombola d’ossigeno. Tale attrezzatura è disponibile in quasi tutti i locali pubblici della città, ma nei bar aggiungono un sorbetto con ghiaccio e molto zucchero, sicché, dopo il malore si può riprendere a camminare nelle vie inquinate e ribollenti di traffico e di folla. Al terminale di Taxqueña, gran parte dei passeggeri corre al capolinea di un vecchio tram rosso, diretto a Xochimilco. La corsa in tram si trasforma in un affresco di vita quotidiana del popolo delle periferie. Donne corpulente salgono e scendono a frotte ad ogni fermata, “rodeadas” di bimbetti vivacissimi. Alcune allattano in tram, mostrando di essere già molto avanti nella gestazione successiva. Fagotti, polli vivi, cesti di frutta e verdura, pacchi di giornali e valigie viaggiano fra i piedi dei passeggeri. Impiegati impeccabili, con carte e libri, stanno a stretto contatto di gomito con popolani scamiciati e sudatissimi, dal tipico sombrero che in tram si rivela alquanto ingombrante. Lungo l’interminabile Calzada de Tlalplan, la linea passa accanto all’enorme Stadio Azteca, teatro di gesta calcistiche animatamente commentate dai passeggeri maschi, specialmente da quei tipi deformati dalla pinguedine che sembrano sempre i più “sportivi”. Qualcuno mangia, altri bevono direttamente dalle lattine nel calore che aumenta con il passare del tempo della tarda mattinata. Le donne estraggono i ventagli, destreggiandosi per farsi vento nella ressa. Un’ultima brusca frenata annuncia l’arrivo al capolinea nel mezzo del mercato ortofrutticolo di Xochimilco. Sembra di essere arrivati al centro di un paesone agricolo della campagna padana nell’ora più calda e umida d’una giornata estiva. Pochissimi passeggeri scesi dal tram, ma molti turisti arrivati con pullman e taxi, fendendo la folla del mercato, si dirigono verso un imbarcadero. Decine di barcaioli vocianti offrono i loro servizi. Occorre contrattare a lungo, ma soprattutto far capire di non appartenere alla fottuta e sfruttatissima categoria dei “gringos”, targati Boston, Dallas o Atlanta, dalla quale si pretendono tariffe esose in “dolares”. Poi finalmente ci s’imbarca. Alcuni metri, una decina di colpi di remo e in poco spazio si compie un enorme balzo indietro nel tempo. Si torna in un quartiere popolare di Tenochtìtlàn, rimasto tale e quale dopo secoli. Xochimilco è ancora un sobborgo lacustre con canali e isole, dove sopravvive qualcosa della Venezia azteca. Gli edifici, per la verità, sono quasi invisibili. Si tratta di capanne seminascoste dalla vegetazione delle isole sabbiose. Le famiglie continuano a coltivare ortaggi e fiori e la vita si svolge sui canali, come in un grande mercato galleggiante asiatico. Tuttavia, a Xochimilco, le fattezze dei mercanti e delle massaie denunciano l’origine “mexica” che, pur avendo qualcosa di vagamente orientale, si caratterizza al contrario per la tendenza all’obesità delle donne, i baffoni neri e i petti villosi degli uomini e l’abitudine a vociare con toni da baritono. L’abbigliamento delle persone e le decorazioni delle imbarcazioni sono decisamente latino-americane, coniugando nei motivi dei disegni e nell’accostamento dei colori violenti il gusto azteco con quello iberico. Le barche, inghirlandate di fiori veri, finti o dipinti, ricordano che Xochimilco è tuttora il giardino della città acquatica azteca, ma la profusione di motivi religiosi, le immagini dei santi protettori e delle formose madonne, confermano la totale conversione del popolo al cattolicesimo, nelle sua accezione latina non priva di esagerazioni paganeggianti e superstizioni ingenue. Sulla via del ritorno, il caldo, la sete e l’appetito fanno dimenticare certe precauzioni alimentari volte a minimizzare il rischio della “vendetta di Montezuma”, che colpisce gli incauti con i sintomi di un incontrollabile subbuglio intestinale. D’altra parte i cibi molto cotti sono sicuri ed è sempre assai sciocco trovarsi in un paese e non gustare le sue specialità culinarie. Da un’osteria, con i tavoli di legno senza tovaglie allineati sul marciapiede, esce l’invitante profumo del pollo al mole. La carne, perfettamente arrostita alla brace, è cosparsa di una salsa a base di crema di cioccolato e chili, piccantissima, ma molto gustosa. Mangiando gomito a gomito con gli avventori locali si fa l’esperienza del discorrere messicano. Lo spagnolo qui è parlato in maniera enfatica, con una pronuncia particolare e termini d’origine azteca. Si fanno uso ed abuso di “palabrotas” e di vocaboli al superlativo, con molto gusto per le parole truculente, dispregiative, peggiorative e iperboliche. Un’edicola di fronte alla trattoria conferma quest’impressione attraverso i caratteri cubitali dei quotidiani locali. Quasi tutta la prima pagina è sempre occupata da un titolo gigantesco in nero. “Avionazo” è un disastro aereo senza superstiti, “Carreterazo” è un incidente stradale, mentre un “Balazo” conclude a colpi di fucile a pallettoni una lite familiare per gelosia. Naturalmente, i sottotitoli hanno il colore del sangue e descrivono vivacemente gli eventi con un gusto tutto speciale per i dettagli più cruenti. La storia messicana, dal giorno tragico della “conquista” fino ai giorni nostri, è piuttosto turbolenta. Gli aztechi non hanno forse perdonato la distruzione della loro cultura, dalla Spagna non sono giunti nel nuovo mondo stinchi di santo e il popolo meticcio che ne è nato ha un caratterino tutt’altro che remissivo. Forse i discendenti degli aztechi nutrono inconfessabili nostalgie per le feste pagane, durante le quali sugli altari e sulle piramidi superbe di Tenochtìtlàn si consumavano sacrifici umani di vergini, anche allora rarissime, nemici fatti prigionieri, individui socialmente scomodi, eretici ed oppositori politici. L’odierna Città del Messico, o meglio il Distrito Federal, chiamato affettuosamente Defe dai locali, occupa l’immensa vallata paludosa di Anáhuac dove gli aztechi avevano eretto la loro capitale Tenochtìtlàn. La zona è sismica, sicché pochi edifici hanno le caratteristiche del grattacielo e la città di case basse si è estesa a macchia d’olio con immensi quartieri, chiamati colonias. I ricchi hanno ville con giardino e piscina, le masse vivono in blocchi a schiera di palazzine economiche o in vastissime bidonville di catapecchie. Per ospitare più di trenta milioni di abitanti, una regione grande come tutto il Lazio, solcata da arterie stradali perennemente intasate dal traffico, è stata ricoperta d’asfalto e cemento. Nonostante l’altitudine media della città sia di 2.300 m. s.l.m., l’aria “di montagna” è irrespirabile per l’inquinamento e lo scarso ricambio, poiché l’altopiano è circondato da altissimi monti vulcanici e il clima tropicale è notoriamente molto umido. Orientarsi a Città del Messico è facile per la planimetria semplice e regolare della città. Il settore nord possiede assi viari numerati e a perpendicolo fra di loro, come in tutte le città americane. Il centro ha conservato la sua fisionomia coloniale di città iberica barocca, mentre il sud presenta quartieri spaziosi ed eleganti con grandi strutture sportive e la famosa città universitaria. Le difficoltà sorgono quando ci si deve muovere nel traffico spaventoso su enormi distanze. Il lunghissimo Viaducto, l’arteria urbana principale, è un serpentone di autoveicoli a passo d’uomo. Il Paseo de la Reforma, lungo 12 km con l’aspetto parigino dei Campi Elisi, fra grandi alberghi e centri commerciali, brulica di folla cosmopolita giorno e notte. L’asse principale nord-sud si chiama Insurgentes. Il nostro albergo si trova a mezza via e dalle finestre sembra che la strada sia illimitata in entrambe le direzioni. Prima di uscire per una passeggiata si domanda al portiere quanto sia lungo il grande viale, facendo fatica a farsi udire nel fragore degli autobus e delle automobili. La risposta è impressionante: “Sesenta y cinco kilometros, Señor!”. Il cuore pulsante della capitale federale è lo Zócalo, la vastissima Plaza de la Costitución, delimitata da edifici notevoli. La Catedral Metropolitana, la chiesa più grande dell’America latina, iniziata nel 1525 e terminata nel 1791, è un colosso nel quale si mescolano gli stili classico, barocco, churrigueresco e neoclassico, con interni che la trasformano in un enorme museo d’arte sacra. A fianco, i resti del Templo Mayor azteco, distrutto dai conquistadores cristiani. Il lato orientale della Plaza è tutto occupato dal Palacio Nacional, il Quirinale messicano, con i famosissimi murales storici di Diego Rivera, dipinti fra il 1929 e il ’35. Tutto il complesso dal 1987 è sotto l’ala protettrice dell’UNESCO, per il suo significato storico e i suoi grandiosi monumenti. Seguendo l’affollatissima Calle Madero si vedono il sontuoso Palacio de Iturbide e La Casa de los Azulejos rivestita di maioliche bianche e blu. All’angolo con l’Avenida Lázaro Cárdenas si leva la Torre Latino Americana, 47 piani, l’edificio più alto della città. Poi s’arriva al Palacio de Bellas Artes splendente di marmi di Carrara, realizzato fra il 1901 e il 1904 dall’architetto italiano Adamo Boari, nello stile ibrido dell’art nouveau con fregi precolombiani. E’ giunta l’ora di un po’ di refrigerio nel bel parco dell’Alameda Central che ingloba quattro grandi musei cittadini dedicati alle arti decorative. Qui gli abitanti di Mexico, noti come “los chilangos”, amano trascorrere al fresco i pomeriggi domenicali. Tuttavia il parco più famoso della capitale messicana è senza dubbio l’immenso Bosque de Chapultepec, vero polmone verde d’una città al limite dell’asfissia per l’inquinamento e l’affollamento. Nel cuore del parco si trova uno dei musei più straordinari del mondo: El Museo Nacional de Antropologia. Nel 1963 l’architetto Pedro Ramirez Vàzquez concepì una costruzione destinata ad ospitare ed esporre in modo geniale i reperti archeologici delle tramontate culture indie, ma anche ad illustrare efficacemente tutti gli aspetti antropologici e la vita del mondo precolombiano e delle superstiti popolazioni indie del Messico attuale. La collocazione del museo nel parco più bello dell’immensa megalopoli ha significati storici ed ecologici. Il Bosque de Chapultepec, miracolosamente scampato allo scempio dell’urbanizzazione, occupa ancora la collina che fu la roccaforte dei Toltechi, antichi abitanti del Messico centrale. Poi divenne le residenza estiva dei sovrani aztechi che avevano nel verde un lussuoso palazzo. Le sorgenti del colle alimentarono a lungo l’acquedotto principale di Tenoctítlán, i cui resti ricordano i grandi ruderi della campagna romana. Nella nuova capitale il parco rappresenta un luogo di delizia e di cultura. All’ombra di essenze forestali pregiate ospita lo zoo, l’orto botanico, padiglioni delle feste, sale da concerto, musei, teatri all’aperto, aree destinate agli sport e alla ricreazione, sulla riva di laghetti ameni, circondati da prati curatissimi con sentieri per passeggiare e cavalcare. L’architetto Vàzquez pensò di far entrare il suo museo nel parco e il parco nello straordinario complesso museale. Il visitatore osserva le opere esposte avendo sempre negli occhi lo scenario verde del magnifico giardino tropicale e nelle orecchie il fruscio del vento e lo scroscio delle fontane. All’entrata del museo si trova il gigantesco monolito del dio della pioggia, Tláloc, trovato nei pressi di Coatlinchán. Nel cortile interno da un enorme ombrello di pietra cade perennemente un velo d’acqua, simbolo di vita, che si raccoglie in un bacino e diffonde frescura nelle sale. A tratti si esce all’aperto per osservare reperti enormi ambientati fra la vegetazione, a volte le vetrate necessarie per illuminare gli interni creano un’illusione di continuità con i prati, gli alberi e i cespugli in fiore. Partendo dalla preistoria, attraverso l’antica cultura tolteca, quella zapoteco-mixteca, il tempo degli olmechi, il periodo classico degli aztechi, la straordinaria civiltà maya e le poco conosciute culture del Messico settentrionale, si giunge alle usanze degli indios ancora viventi in Messico, ai loro costumi, agli utensili, all’artigianato, all’arte, alle abitazioni e al modo di vivere e lavorare dei sopravvissuti del mondo precolombiano. L’europeo, plagiato da un’educazione ed una cultura mediterraneocentriche, esce stordito dalla visita, scoprendo che mentre Ninive, Memfi, Atene, Sparta e Roma s’imponevano come fari di civiltà, in un continente lontano e neppure immaginato, popoli straordinari fondavano città ed imperi altrettanto grandiosi, famosi e potenti. Nuestra Señora de Guadalupe aveva il suo bel santuario barocco nel settore settentrionale di Città del Messico, insufficiente a contenere la marea dei pellegrini. Anche la religione in questa città dalle dimensioni disumane deve fare i conti con la densità della popolazione, la quale con ogni evidenza continua ad obbedire al fatidico “andate e moltiplicatevi”, fino alla saturazione fatale. Pertanto, nei pressi della stazione del metrò Montevideo-Basilica, è stato costruito un tempio modernissimo e brutto, a pianta circolare con numerose entrate e uscite, per far fronte all’incredibile folla di fedeli che si reca quotidianamente a venerare la Madonna. La minuscola immagine sacra è valorizzata come unico punto focale sull’enorme parete concava nell’interno silenzioso, ma per ammirarla e pregare ogni orante dispone solo di un breve istante, poiché la massa dei fedeli è avviata in fila indiana su un nastro trasportatore elettrico che non concede soste. Il calore, l’umidità, l’inquinamento e il cattivo odore tipico dei santuari, forse perché certi bigotti ritengono sconveniente lavarsi e cambiarsi d’abito, trasformano la visita di buona volontà in un’esperienza allucinante di lenta agonia per soffocamento, fortunatamente e solo per poco non seguita da decesso. Città del Messico è interessante anche per i suoi numerosi, vivaci ed affollatissimi mercati. L’artigianato ricco e multicolore del paese latino-americano trova nella capitale messicana una piazza di smercio importantissima, specialmente nel fantastico Mercado del Sabado, plaza San Jacinto, quartiere di San Angel. In realtà si tratta di un “mercato delle pulci”, nei pressi di una bellissima casa coloniale, ma ormai tutti i giorni della settimana i turisti affollano le botteghe e le bancarelle alla ricerca del pezzo raro da portare a casa per ricordo di un viaggio indimenticabile. Più serio, ufficiale e costoso, il Centro Artesanal Buenavista, nella colonia Guerrero, che è un vero e proprio museo-mercato della migliore “artesania” messicana. Nella Zona Rosa si trova il bel Mercado de Londres. Molto interessante e cosmopolita il Mercado de la Ciudadela, mentre per l’antiquariato bisogna andare a passeggiare nelle vie elegantissime del quartiere Condesa. Le notti a Ciudad de Mexico sono rutilanti, in piacevole contrasto con la vita diurna condizionata dall’affanno. Chi ha un lavoro deve combattere con i problemi del traffico, chi non lo ha deve sviluppare nei modi più fantasiosi l’arte d’arrangiarsi, cosa non facile in una megalopoli disumana. Tutti soffrono per l’inquinamento, il caldo e la nevrosi metropolitana. Appena il rosso disco solare decide di abbassarsi dietro le montagne, avvolto in un mantello di caldi vapori, che forse gli renderanno meno traumatico il tuffo nelle fredde acque del Pacifico, il Distrito Federal tira un gran sospiro di sollievo. La città s’illumina da un capo all’altro dell’immensa valle di Anahuac e l’abitudine spagnola della “movida” è qui vissuta con maggiore vivacità e convinzione, favorita dal clima tropicale e dall’indole degli abitanti. Alcune “colonias”, come i quartieri denominati Roma e Napoles che fanno parte della cosiddetta “Zona Rosa”, si animano dopo il tramonto. Migliaia di ristoranti, “bar de tapas”, locali di divertimento e da ballo attirano folle di avventori e clienti. Le cucine, spesso a vista o aperte sulla pubblica via, riempiono l’aria di odori stuzzicanti di carni arrostite e salse piccantissime, mentre si acquieta il fragore del traffico e si diffondono musiche afrocubane. La musica è nel sangue di ogni messicano. Non si concepiscono riunioni e feste senza adeguato accompagnamento musicale. Per la bisogna si ricorre ai “mariachis”. Questi personaggi, da soli o più spesso riuniti in gruppi musicali, sono tipici protagonisti delle notti di Città del Messico. Si potrebbero definire “musicisti da noleggio”. Per assoldarli occorre recarsi nella grande Plaza Garibaldi, non lontano dall’Alameda. La piazza accoglie centinaia di mariachis desiderosi di essere chiamati per rallegrare matrimoni, feste di famiglia, compleanni, riunioni di lavoro o semplici serate fra amici. I mariachis singoli o i loro gruppi organizzati come complessi polistrumentali si esercitano a scopo pubblicitario nei loro pezzi migliori. Il risultato è straordinariamente polifonico, anzi, per la verità è un vero e proprio caos di note, di motivi e di canti, mentre dalle vie adiacenti le auto attirano l’attenzione dei musicisti con colpi di clacson e richiami ad alta voce. Intorno, nei locali pubblici della Plaza, quasi tutti dediti alla ristorazione, si assiste a scene da basso impero, con intere famiglie e molti turisti che si affannano ad accaparrarsi i tavoli per pantagrueliche cene a base di piatti tipici, nel generale frastuono. L’Università messicana è la più antica del nuovo mondo e la più grande dell’America latina. Fondata nel 1551 in piena epoca coloniale spagnola, è stata completamente riprogettata dopo quattro secoli e resa famosa per gli straordinari “murales” a mosaico che ornano gli edifici principali, come la biblioteca, il rettorato, l’Auditorium e l’Istituto di Medicina, a firma di Juan O’Gorman, Siqueiros e José Chàvez Morado, con motivi ispirati alle culture indigene, alla politica e ai temi della vita e della morte.
Umberto Mantaut