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Censura social, ma quando, e da chi

Ci sono molti casi in cui sfumato l’effetto, ultimo dei quali gli “insulti a Segre,” non si sente più parlare della volontà di emanare provvedimenti ed applicare restrizioni all’utilizzo indiscriminato dei social. Ma è normale, penso che non attueranno mai tali limitazioni, perché i social sono una grande valvola di sfogo per la rabbia che il comportamento, oserei dire indegno, dei politici in genere causa. E loro, i politici, lo sanno bene. Se vogliamo c’è persino analogia con il M5S che, al suo nascere, aveva enucleato il grande malcontento, tutti gli indignati avevano creduto che spuntasse per davvero un movimento fatto per dare voce ai crescenti disagi, che diversamente avrebbero potuto trovare sfogo in reazioni più violente. Ecco allora che i social rappresentano un bello sfogo, e lo dimostra l’accanimento dei cosiddetti leoni della tastiera, vale a dire coloro i quali, codardamente protetti dall’anonimato, si scagliano con violenze verbali sproporzionate verso chi ritengono in qualche modo avversario, innescando anche violenza, che seppure verbale ha comunque effetti deleteri. I social danno la sensazione di visibilità a chiunque, e con tutta probabilità, specie chi è meno attrezzato culturalmente, si sente appagato, ha dato così sfogo alla rabbia interiore beandosi e gratificandosi dai “Mi piace” o “Condivido” ottenuti. Se così non fosse se ne guarderebbero bene dall’utilizzo coloro i quali, a parole, ne vorrebbero controllo e limitazione. Anzi, vediamo bene che ormai la politica usa più che volentieri strumenti come i social. Lo fa persino il Papa.

C’è comunque una indicazione da trarre da tali fenomeni, vale a dire che vi sono essenzialmente due modi di fare politica: quella della comunicazione, della quale se ne servono tutti, addirittura facendosi coadiuvare da specialisti del settore; quella vera, della ricerca delle soluzioni, della mediazione, delle negoziazioni, della cultura del rapporto, cose per le quali dobbiamo tragicamente ammettere l’incapacità, la latitanza, o peggio ancora, l’ipocrisia di molti dei suoi interpreti.

Giorgio Raviola

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