Gateway of India, la porta dell’India è il nome che si addice perfettamente alla megalopoli che oggi occupa un arcipelago di isole e isolotti considerato nella seconda metà del 1600 un luogo malarico. Formava parte della dote della principessa Caterina di Braganza andata sposa a Carlo II d’Inghilterra e questo paese lo affittò nel 1668, per misere 10 sterline annue, alla Compagnia delle Indie Orientali. Nessuno poteva immaginare che il porto sarebbe ben presto diventato uno dei più grandi empori mondiali, rimanendo ancora oggi il cuore e il cervello economico di tutto il subcontinente indiano. La enorme città continua ad essere chiamata Bombay dagli occidentali, ma gli indiani più romantici hanno voluto ribattezzarla Mumbai in onore di una loro antica dea. Oltre che la capitale economica dell’India, Bombay è anche capitale di uno degli stati più grandi e ricchi della confederazione indiana, il Maharashtra, di lingua marathi. Giungendo dal mare, la Porta dell’India si materializza, fra le brume della laguna e lo smog della metropoli, sotto forma di una via di mezzo fra un grande e tozzo portale e un arco di trionfo di un brutto colore marroncino. Dal punto di vista architettonico, pur essendo di stile Gujarat, non presenta un grande interesse, ma evidentemente e un polo di attrazione per i cittadini di Mumbai e per i numerosi turisti, frastornati da tanta folla in parte agitata e in parte oziosa. Sullo sfondo, bianco e tronfio si staglia uno degli alberghi più grandi e lussuosi di tutto l’oriente, il Taj Mahal Palace. Poi occorre tuffarsi letteralmente nel caos di una città inquinatissima, che secondo le ultime statistiche ha quasi 22 milioni di abitanti. Intorno alla città coloniale inglese con i suoi grandiosi edifici pubblici, grandi arterie e parchi, si estende una metropoli moderna con i centri direzionali rappresentati da vertiginosi grattacieli, da fare invidia a New York o Shianghai, e poi un mare di baraccopoli orripilanti destinate agli sfortunati delle caste inferiori, ai contadini inurbati ed altri poveri esseri umani che la società dei consumi continua, nonostante tante belle parole, a considerare feccia. Quello che noi chiameremmo centro storico, a Bombay corrisponde alla grande città sviluppatasi sotto la dominazione inglese. Costoro, evidentemente convinti di poter considerare per sempre l’India come territorio metropolitano fedele alla corona, hanno in un certo senso riprodotto Londra con dimensioni ancor più colossali. Tutti i grandiosi edifici pubblici, Segretariato, Università, Corte Suprema, Municipio e Cattedrale si trovano fra una specie di Central Park, chiamato Maidan, e Horniman Circle. Il loro stile è un pesante gotico vittoriano aggravato da influenze architettoniche locali. Persino nel traffico Bombay vorrebbe scimmiottare Londra, ma è una megalopoli senza metropolitana e con bus a due piani multicolori, tuttavia di ordine britannico proprio non si può parlare. Si tratta di un caos dominato da inquinamento acustico e atmosferico. Addentrarsi nei mercati consente un contatto sconvolgente con la folla e le abitudini mercantili locali. Può affascinare l’orgia di colori, mentre lascia perplessi l’aspetto igienico dei settori alimentari, particolarmente nel mercato del pesce. Tra i miasmi delle putrefazioni, l’acuto odore delle spezie, i fumi e i gas di scarico, i profumi e i sudori dei passanti, si mette a dura prova il senso dell’olfatto. In tutte le città di nostra madre Terra, alla fine, esiste un monumento simbolo che le caratterizza. A Mumbai si finisce a naso all’insù davanti al Victoria Terminal, Chhatrapati Shivaji, la più incredibile stazione ferroviaria del mondo. E’ un mostro architettonico, ma talmente straordinario da far parte degli innumerevoli siti protetti dall’Unesco, che nel 2004 l’ha indicata come patrimonio dell’umanità da preservare. Gli amanti delle bellezze classiche e rinascimentali storcono naso e bocca, colpiti da crampi di stomaco. Il Victoria Terminal sorge come una cattedrale dedicata al dio treno, costruita fra il 1878 e il 1887, su progetto dell’architetto Stevens, il quale, ispirato dallo stile della St. Pancras Station di Londra, realizzò un edificio gotico vittoriano, a dir poco gigantesco, con una impressionante profusione di materiali e decorazioni, con influenze indiane in molti dettagli. Lo sguardo scende dall’alto della enorme cupola attratto dalla policromia delle pietre, dai marmi pregiati, dalle finestra con vetrate colorate, dagli elaborati ferri battuti delle cancellate. Dietro simile facciata occorre andare a vedere lo scalo ferroviario con il suo fascio di binari, il continuo via vai dei convogli e di una folla cosmopolita che è difficile immaginare se non si viene a Bombay nell’ora di punta. I treni indiani, che sembrano antidiluviani rispetto alle nostre frecce ad alta velocità, impiegano giorni per raggiungere le altre città dell’immenso stato federale, ma a Bombay, priva di metrò, molti convogli servono gli affollati quartieri della metropoli e delle sue sconfinate periferie. Osservare la folla che scende e sale dai vagoni malconci, contribuisce allo stordimento che si prova in questa “porta” dell’India.
Umberto Mantaut