La fila dei visitatori, all’ingresso della sala 104 del Museo Guggenheim di Bilbao, è in paziente attesa di ammirare le opere somme della Collezione Panza: arte minimalista, concettuale, postminimalista e “environmental art”, l’arte ambientale. Una sorvegliante severa, in divisa sgargiante, introduce una dozzina di persone per volta attraverso una fenditura praticata in uno scatolone, di un amorfo colore beige, al centro del vastissimo locale. Passano quaranta interminabili minuti; finalmente si può varcare l’agognata soglia. Si entra in un labirinto: pareti di legno compensato, strette, alte, nude, un’aria irrespirabile, una tortura per i sofferenti di claustrofobia. Si cammina a fatica, con continui cambi di direzione, si raggiunge una cameretta interna, vuota e senza uscita. Occorre “dar la vuelta” e ritornare indietro, ripercorrendo gli stessi angusti corridoi. S’odono risatine nervose, commenti salaci, imprecazioni ansimanti in varie lingue. Si ritorna all’aperto e ci si domanda: “Tutto qui?”. Al labirinto successivo la maggioranza sgattaiola. I critici, impegnati nella ampollosa quanto disperata giustificazione di certe imbecillità, ripetono che proprio in quel “Tutto qui?” è insito il valore dell’eccelsa arte postmoderna. L’esclamazione risuona all’uscita di tutte le sale del museo: in una occorre entrare scalzi, come in una moschea; ci si aggira in un vano immenso dalle pareti candide, illuminate brutalmente da riflettori; vedendo un bel niente, il visitatore rapito dovrebbe, nell’intenzione dell’artista, popolare i muri di immagini fantastiche. L’arte non è, forse, figlia della fantasia? Perché non trasformarla in madre? In altre sale, raggiungibili con ascensori trasparenti, si notano grandi tabelloni monocromatici con semicerchi neri, ottenuti col compasso. Qui l’arte si nasconde nel semicerchio mancante. In ascensore un anziano mi sfiora la spalla:”no piensa Usted que nos están tomando del pelo?”. Accenno di sì con la testa e traduco a due ragazze tedesche: “lei non pensa che ci stiano prendendo in giro?”. Rispondono in italiano: “ci prendono per il culo”.Su un muro pendono in disordine, non pittoresco, cinghie di cuoio, forse finimenti per equini, illuminate da un tubo fluorescente turchese. L’iscrizione recita: Richard Serra – Cinturones (Belts), 1966-7. Caucho y neon, 213,4 x 731,5 x 50,8 cm – Solomon R.Guggenheim Museum, Nueva York, Colección Panza, 1991. Altrove, sul pavimento, si può camminare, sognando ciò che si vuole, su “artistiche” mattonelle di lega metallica, male allineate. In effetti richiamano l’attenzione, soprattutto per non inciampare. C’è qualche informe mostro metallico, rugginoso. Sembra saltato fuori da un cimitero di locomotive colpito da un bombardamento. Non mancano i cubi di plexiglas, gli specchi deformanti e i soliti tubi in pose diverse, per evocare nudi femminili. Vietato ridere o fare commenti salaci, i critici affermerebbero che non capisci “un tubo”. Guai ai reduci dal Louvre, dal Prado, dall’Ermitage e dalle Gallerie degli Uffizi. Denutriti d’arte, assetati e con gli occhi fuori dalle orbite, come gli ospiti dei campi di sterminio, non reggono all’abbuffata, all’orgia di forme e di colori, ai messaggi subliminali che scorrono in verticale sui pannelli televisivi computerizzati del Guggenheim. Già, anche quella è arte. Si tratta di verbi in libertà: dare, perdere, godere, guadagnare, beccarsi, morire…. tutti rigorosamente in inglese. I comuni mortali che hanno pagato l’ingresso si sentono davvero presi in giro. Ai varchi viene applicato un bracciale adesivo che dà agli entusiasti la possibilità di rivisitare tutto il museo più volte, nell’arco della giornata, uscendo liberamente per pranzare, discutere e meditare. All’esterno l’edificio è imponente. Lo straordinario contenitore del nulla occupa un’ansa del fiume Nervión, nome quanto mai adatto per rappresentare lo stato d’animo e la delusione di chi è venuto da lontano. E’ opera dell’architetto Frank Gehry che ha assemblato masse curvilinee, rivestite da una pelle metallica di titanio, combinandole con pareti di cristallo e muraglie di pietra calcarea. Si rimane perplessi, ma bisogna accettare certe mostruose bellezze, riconoscendone un’avveniristica funzionalità. Potrebbe essere il terminal di uno spazioporto, servire per una fiera campionaria di computer, ospitare uno di quei summit, costosissimi per il contribuente, dove i moderni faraoni si riuniscono, possibilmente a lungo, per discutere dell’immortalità dello scarafaggio, in inglese “beetle”, degenerazione esapode dell’antico scarabeo egizio. Per mesi, l’inaugurazione del Guggenheim di Bilbao ha fatto il giro del mondo. Un tam-tam condito dai commenti saccenti dei vari conduttori televisivi, dei critici d’arte e dei politici onnivori. La scialba capitale basca ne ha tratto indubbi vantaggi. Bilbao, dopo aver fatto di tutto per essere la città più brutta della Spagna, sta cercando di cambiare volto. Visitarla è assai stimolante per chi si interessa di ristrutturazioni urbanistiche e poi è pur sempre una città spagnola piena di vita che invita all’ottimismo. Le rive del Nervión, anche in aree centrali della città, sono tuttora occupate da un serpentone di industrie cadute in disgrazia. Ovunque, capannoni fatiscenti, depositi di vecchi macchinari, rottami, binari arrugginiti, moli abbandonati, gru immobili contro il cielo grigio, fino all’estuario, attraversato, nella sua parte più stretta, dal “Puente Transbordador más antiguo del mundo”, nel sobborgo di Las Arenas. Tuttavia, partendo dal centro, rimesso a nuovo, fino alle periferie residenziali costiere, nella città di Bilbao è in atto un generale processo di risanamento. Funziona un’ottima metropolitana, parte sotterranea e parte sopraelevata, le tangenziali permettono di raggiungere rapidamente i vari quartieri, scavalcando il fiume su arditi viadotti, il verde pubblico, sebbene scarso, è molto ben tenuto, fortunatamente non c’è inquinamento, perché il Cantabrico è molto ventoso. I suoi molluschi prelibati entrano in tutte le specialità della cucina basca. Per ricordo li possiamo anche portare a casa, li vendono “enlatados”, in scatola, ma è meglio gustarli sul posto.
Umberto Mantaut