Verso la fine del dicembre 1981 mi trovavo nella capitale della Lettonia. Il giorno di San Silvestro fu interamente dedicato alla visita della città. Ciò che più colpiva di Riga era lo sforzo della popolazione nel rifiutare tutto ciò che era imposto dagli invasori russi. Tutti parlavano solo la lingua locale, le scritte solo in lettone, gli addetti dei locali e dei negozi gradivano in maniera ostentata che ci si rivolgesse loro in tedesco, lingua che quasi tutti parlavano bene.
La Lettonia non ha mai ricevuto molti favori dalla Germania, anzi perdette la libertà proprio a causa di un patto scellerato fra nazisti e comunisti, molto simili quando si tratta di ordire mascalzonate, ma Riga è una città mitteleuropea nello stile delle costruzioni, nel colore e nei particolari. E’ una bella città, ma in quel periodo aveva perduto il sorriso sotto il peso delle sue sventure, nonostante i passanti si mostrassero molto cordiali con gli stranieri.
Un tipo arguto ammiccò mostrandoci un gatto di pietra in bilico sulla linea di colmo di un tetto. Nella città vecchia la bestiola monumentale alza la coda e mostra il posteriore verso est. L’uomo spiegò che questo era rimasto l’unico modo per prendersi gioco degli odiati russi.
Con gli stessi stratagemmi messi in atto a Leningrado, anche a Riga riuscimmo ad abbandonare il gregge del gruppo italiano, rifiutando con gran disappunto della severa guida russa la visita del locale museo navale. Dopo qualche ora di vagabondaggio nelle vie cittadine, interrotto da frequenti tè bollenti per sopportare la morsa del gelo, varcammo una porticina sormontata da una croce, incuriositi da una folla di vecchi furtivi che entrava nell’edificio.
Mia madre ed io ci trovammo nell’unica chiesa cattolica rimasta aperta a Riga, dopo la chiusura dei grandi luoghi di culto della capitale, trasformati in musei o, più spesso, in depositi disordinati di merci. Ci accolse un prete che parlava italiano. Era l’ora della Messa vespertina di Capodanno, tutta in latino. La gente, con foga e ad alta voce, pregava consapevole di ciò che diceva e quella lingua familiare annullò le distanze fra noi e questi luoghi tanto insoliti e forse inadatti per venirci a finire un vecchio anno e iniziare il 1982. Dunque anche la spietata dittatura del proletariato, sostenitrice dell’ateismo di Stato, non riuscì a spegnere la fede nei paesi soggiogati ed oggi in tutto l’est europeo pare che si assista ad un gran ritorno ai riti e alle consuetudini dei cristiani cattolici ed ortodossi.
Intanto in Italia si decise di bandire il latino, bocciato come lingua morta, dai programmi della scuola media e la Chiesa lo bandì dalla Messa e dagli altri riti, da tenersi rigorosamente in italiano. A questo punto sarebbe stato opportuno suggerire i dialetti, specie nelle zone rurali dove il popolo ha difficoltà anche con la lingua ufficiale dello Stato. Le alte gerarchie ecclesiastiche, spesso affascinate dall’idea di un minculpop religioso, notando la disaffezione dei fedeli, la carenza di vocazioni e il diradarsi dei frequentatori ai riti, forse si illudevano di andare incontro alle plebi mettendosi al loro livello. Invece, le chiese si sono svuotate.
Il latino univa, non allontanava, e contribuiva a creare l’alone di misticismo che doveva assolutamente essere conservato gelosamente nei luoghi di culto. Un altro aspetto negativo è stato quel trasformare gli splendidi organi delle cattedrali in oggetti di antiquariato. La musica sacra appunto come tale conferiva fascino, sacralità e misticismo alle cerimonie religiose. Oggi, ai piedi dell’altar maggiore si notano spesso strimpellatori scapigliati di sesso incerto, orchestrine da balera o da discoteca e nei momenti più intimi delle Messe, quando i fedeli dovrebbero avere un attimo di pace e di meditazione in silenzio, si scatena una indecente bufera di decibel.
Occorre anche notare una quasi blasfema mancanza di rispetto, poiché il sacerdote nell’ansia di rivolgersi al popolo volta le spalle al tabernacolo dove da sempre ci hanno detto che si conservano le ostie consacrate. Certo il Signore non si offende per così poco, ma molto poco hanno ottenuto nelle chiese considerando che poi il prete si rivolge a quattro gatti nella prima fila dei banchi e due gatti nella seconda. In italiano nelle preghiere ripetute dai pochi fedeli non mancano gli strafalcioni. Il Padre Nostro che si recitava a mani giunte ora si recita a braccia aperte come nelle preghiere nelle moschee, ai funerali si è diffusa la sconcertante usanza degli applausi non a scena aperta ma a bara chiusa. Insomma una rivoluzione fallimentare con fuga dei seguaci.
Il Papa polacco, non per nulla fatto santo, aveva riportato molti giovani alla partecipazione e alla fede. Ovviamente non si può dire, ma è la verità, Egli contribuì non poco a sconfiggere la piaga del comunismo, almeno nei paesi oppressi dell’oriente europeo. Da noi i rossi si affrettarono a cambiare nome e poi a trovare sponda in non pochi religiosi folgorati sulla via del Che, su fino alle somme autorità. L’emblema di queste manovre fu l’offerta di un crocifisso realizzato incrociando la falce e il martello, accettata non sappiamo quanto volentieri dall’ultimo Papa venuto dall’Antartide. Da noi, rimane impressa la strana foto, tipo coppia di fatto, fra il Santo Padre e il nostro nuovo Duce, che oltre a chiuderci in casa ha chiuso pure le chiese per decreto, mandando la polizia a interrompere un timido parroco che tentava di dire una Messa in un paesello con una decina di oranti ben distanziati.
I peccatori incalliti hanno avuto un momento di profonda soddisfazione sentendo dire che la confessione ormai è superflua, nel senso che se si vuole ci si può mettere ai piedi di un pino marittimo, rivolgersi al Signore, certi della assoluzione. Infatti, era molto umiliante andare a raccontare le nostre masturbazioni ad un ministro del culto nascosto dietro una grata. Ora, quei magnifici manufatti lignei che sono i confessionali delle grandi cattedrali si possono vendere agli antiquari che li trasformeranno in mobili bar tanto per mettere un pezzo antico negli arredamenti minimali.
Ora si sente dire che la CEI, Conferenza Episcopale Italiana, è indignata perché a causa del virus mortifero il loro pupillo ha detto che le porte delle parrocchie non si possono aprire come quelle delle tabaccherie. Ci si domanda dov’erano i vescovi quando si stravolgevano nei modi descritti i riti religiosi. Dove erano quando poco per volta le omelie si stavano trasformando in comizi politicamente corretti. Dove erano quando le radici cristiane del nostro vecchio continente non venivano riconosciute e citate in nessun documento ufficiale delle istituzioni europee. Dove erano quando la Fallaci, che certo non era una carmelitana scalza, rinominava la vecchia Europa con il termine Eurabia. Dove erano quando di fronte agli schiaffoni dati all’occidente dai terroristi islamici non solo si porgeva l’altra guancia ma anche l’altra chiappa, facendoci invadere al grido di “volemose bene”, o quando poco per volta invece della via di Damasco abbiamo imboccato la via della seta. La CEI ha alzato la testa, ma il Papa ha chiesto di abbassarla. Dare al novello Cesare ciò che non è di Cesare. Dio può attendere chiuso in chiesa e se esce si metta la mascherina.
Umberto Mantaut