Iniziamo col dire che chiamarlo anno è alquanto improprio. Anche nei bei tempi andati l’anno scolastico durava da ottobre a giugno, nove mesi come la gravidanza umana. Dopo l’anno di disgrazia 1968 incominciò a concludersi con il lieto evento del “tutti promossi”, favorendo asini e capre, con rispetto parlando per i miti somarelli e le intelligentissime caprette. L’esito oggi appare chiaro a tutti: incapaci ed impreparati, convinti di essere all’altezza in quanto dichiarati maturi con la formula “semo tutti uguali, volemose bene” pretendono posti di responsabilità, arrivando persino a ricoprire cariche di ministro. I ragazzi studiosi, demotivati perché promossi con lo stesso sei politico dei fannulloni, quindi squalificati da titoli di studio carta straccia, rimangono magari disoccupati. Il livellamento voluto come sinonimo di massima democrazia ha paradossalmente avvantaggiato i figli dei ricchi. Costoro si guardano bene dal mandare i loro pupilli nelle scuole pubbliche trasformate in cortili vocianti. Li iscrivono in costose scuole private, spesso all’estero, così poi si presentano con titoli validi, sono poliglotti e, con le raccomandazioni del giro bene occupano buoni posti, oppure vanno all’estero dove i meritevoli sono apprezzati e ben pagati. Un tempo il calendario scolastico prevedeva tre trimestri. A Natale le famiglie, viste le pagelle, sapevano calibrare le strenne. Per troppe insufficienze il pupo era costretto a studiare e niente settimana bianca a Cortina. Poi a Pasqua arrivava la seconda pagella e qui si ragionava se mettere o meno la sorpresa nell’uovo. A fine anno, gli impreparati erano bocciati oppure rimandati agli esami di riparazione. Ora, per decisione unanime, i docenti scelgono immancabilmente la formula del quadrimestre. Forse siamo maligni pensando che costoro calcolino che è meglio riunirsi di pomeriggio solo due volte anziché tre per gli scrutini. Forse è meglio capire come vanno le cose nella triste quanto quasi comica realtà della scuola odierna. Per le prime settimane si lavora con orario provvisorio e ridotto, perché non tutte le cattedre sono coperte, si assiste ai girotondi dei supplenti che non impostano programmi sapendo di durare poco, col penoso compito di sorvegliare o meglio domare le piccole belve. Dopo i Santi, i ragazzi più “attivi”, dopo qualche assemblea schiamazzante nei corridoi, optano per la “okkupazione” con autogestione. Le aule diventano bivacchi, gli insegnanti, pensiamo assai contenti, restano a casa “costretti” dato che la scuola è inagibile. Mai vista una denuncia per interruzione di pubblico servizio. Lo stipendio corre ugualmente e ci mancherebbe. Le signore si possono dedicare alla sacra famiglia, i maschietti intensificano le loro consuete attività tipiche dello statale medio, curare i propri studi professionali privati o svolgere il secondo lavoro. A gennaio, stanchi di dormire nei sacchi a pelo, mangiare panini, sbevazzare e farsi canne fra un “cioè” e l’altro, l’impegno degli studenti viene meno e si riapre un simulacro di scuola, chiamato secondo quadrimestre. Non si rinuncia alle vacanze di Pasqua, ai ponti e ponticelli, alla gita scolastica quasi d’obbligo, a festeggiare i cento giorni e godersela se finalmente sono i docenti a scioperare. Appunto, alla fine “tutti promossi” e tutti al mare. Chi crede che le cose non stiano così, peste lo colga. Comunque non è corretto dare tutte le colpe di simile indecente sfacelo solo ai ragazzi e agli insegnanti. I giovani sono come un metallo prezioso duttile e malleabile, li possiamo valorizzare e farne dei gioielli, oppure metterli in fila come lingotti tutti uguali, forse con ancora un valore intrinseco, ma dotati di forma appiattita ben poco artistica. La categoria degli insegnanti è frustrata. Fanno un terzo, ma sono pagati la metà dei loro colleghi europei e, per loro stessa scelta hanno perso ogni carisma. E’ democratico darsi del tu con gli allievi o si creano inopportune confidenze? E’ corretto assentarsi troppo, oppure passare il tempo a fare comizi invece di tentare di insegnare qualcosa della propria materia alla scolaresca impegnata a giocherellare col cellulare? Sanno i docenti che i giovani sono bastiancontrari, tirati troppo per la giacchetta a svoltare a sinistra, magari si scopre che si rivolgono a destra? Tuttavia, il pesce puzza dalla testa, che poggia sul collo massiccio del Ministero della Pubblica Istruzione, da decenni impegnato nella distruzione della scuola con comportamenti da minculpop da regime totalitario. In verità uno dopo l’altro e uno peggio dell’altro si sono alternati ministri delle più diverse aree politiche. Alcuni, non troppo entusiasti dell’andazzo, sono rimasti in un silenzio immobile, terrorizzati dalle rivolte studentesche e dallo strapotere dei sindacati di categoria. Altri hanno minato dalle fondamenta l’edificio, che sì aveva bisogno di restauri, ma non meritava di essere demolito. Iniziarono eliminando il latino dalla scuola media inferiore, poi hanno ridotto la geografia fisica e quella economica ad una gita fuori porta, la storia è stata mutilata delle parti non gradite, lo studio delle lingue straniere finisce non appena le classi rispondono con uno stentato “Yes”, con accento trasteverino. Meglio non proseguire e indicare altre brutture, tra le quali spicca il reclutamento degli insegnanti. La cattedra intesa come posto o impiego non è stata più assegnata a laureati dotati di abilitazione all’insegnamento e selezionati mediante concorsi severi. C’è chi non capisce che essere un laureato magari col massimo dei voti in matematica non significa che il soggetto sia anche in grado di insegnarla. Conoscono i neoassunti, destinati a un penoso precariato, qualcosa di materie indispensabili per essere buoni maestri: pedagogia, psicologia dell’età evolutiva, dizione, docimologia, maieutica? Per stabilizzare dopo anni gli “instabili” si sono inventati divertenti corsi abilitanti, poche ore di vaniloqui, poi tutti in cattedra a pontificare. Fra i vari ministri della Pubblica Istruzione, alcuni della serie “sotto i capelli niente”, altri con alcune rotelle fuori posto, un bel giorno fu nominato Luigi Berlinguer, cugino del più noto Enrico. Egli parlò di “riforma”, anzi rianimazione della scuola in agonia. Sapendo leggere fra le righe delle sue circolari si scopre che il messaggio era: cari docenti, la festa è finita, qui bisogna ricominciare ad insegnare qualcosa e puntare sulla “maieutica”. Si scoprì che ben pochi insegnanti, partendo proprio da quelli di lettere, sapevano cosa volesse dire “maieutica”. Poveretti, non potevano consultare un vocabolario, poiché da tempo le biblioteche scolastiche sono state saccheggiate durante le okkupazioni per vendere i volumi a Porta Portese. Allora conviene semplificare e riassumere. La maieutica è un’arte che un insegnante deve conoscere ed esercitare. Non deve cacciare a viva forza nelle teste degli allievi le fesserie che stanno chiuse nella sua scatola cranica, ma deve far emergere dall’animo e dalla mente dei ragazzi le loro aspirazioni, doti, capacità, attitudini. Nel coltivarle deve avere come obiettivo la formazione di cittadini dotasti di solidi crediti formativi, di educazione civica, di abilità nel mondo del lavoro, di aperture mentali, rispetto degli altri e delle altrui opinioni. Insomma tutto il contrario di quanto si è fatto in maniera insensata e distruttiva in questi ultimi decenni. Certe volte tornare un po’ indietro serve a ritrovare slancio per andare avanti. Sarà comunque dura.
Umberto Mantaut