Arrivando dall’Atlantico procelloso, Cuba si presenta come una grande falce di terraferma posta a frenare i marosi dell’oceano e a proteggere il mare interno dei Caraibi o delle Antille, famoso per il clima paradisiaco e la bellezza delle sue isole incantevoli. In realtà, Cuba non è una sola grande isola, bensì un grande arcipelago con circa 4200 isole, molte delle quali piccolissime, chiamate cayos nell’idioma locale spagnolo. Il nome fu scelto da Cristoforo Colombo che pensò d’essere arrivato nelle Indie a Cibao, terra dell’oro, ma gli indigeni Taino già chiamavano Cuba con i termini “cubanacán” oppure “cubao”, luogo centrale o terreno fertile. Le più recenti lotte per l’indipendenza dalla Spagna e il sacrifico del padre della patria José Marti furono in un certo senso un’illusione, poiché Cuba divenne ben presto, con governi fantoccio, un protettorato degli Stati Uniti che hanno una cultura basata su dollari e bordelli, sono noncuranti delle diseguaglianze sociali e prediligono piccoli gaglioffi locali da imporre come dittatori nei paesi colonizzati. I cubani, probabilmente, non amavano “los gringos”, ma non potevano immaginare che, scegliendo come icona il Che e come padre-padrone, sospettato di immortalità, il barbuto Fidel, sarebbero finiti per decenni in un regime che persegue la equa spartizione della miseria, compensata solo dall’innalzamento del livello di alfabetizzazione del popolo, cosa comunque non trascurabile. Fidarsi degli aiuti russi e sfidare l’embargo americano non sono state cose positive per l’economia cubana, retta da una discutibile autarchia e dal turismo, favorito dal clima e dalle spiagge meravigliose, scelte soprattutto dagli italiani. Finalmente qualcuno ha capito che i tempi del comunismo duro e puro non sono finiti solo in Russia, ma che anche Cuba poteva permettersi qualche vantaggiosa apertura, nella quale si sono subito rituffati gli americani, togliendo l’embargo e sperando forse di rifare buoni affari in quest’isola strategica. La prima conseguenza sarà probabilmente l’importazione di qualche automobile meno pittoresca di quelle che ormai sono oggetto di fotografie curiose nelle strade dell’Avana. Hanno tutte un’età veneranda, colori inverosimili, quintali di cromature e i segni di continue riparazioni artigianali. Si tratta di quelle vetture fra il pacchiano e il mostruoso che l’industria americana sfornava a milioni decine di anni fa, prima di capire che anche per l’automobile ci vuole un minimo di buon gusto europeo. La Repubblica Cubana, per sua fortuna, pur collocandosi geograficamente a soli 180 km dalla Florida, ha usi, costumi e lingua iberici, quindi squisitamente europei, dell’Europa mediterranea, culla di civiltà, di sano edonismo e di saggio saper vivere. Se si risveglia, forse, avrà un futuro.
“Descuidado” è l’aggettivo castigliano per definire il “casco historico” dell’Avana. La città vecchia, la Habana vieja, s’estende fra il porto e l’area monumentale della capitale cubana, un insieme urbano protetto dall’UNESCO dal 1982 come patrimonio dell’umanità, la quale qui purtroppo sembra aver perso il senso estetico, il gusto per il bello e persino la decenza. Nelle vecchie strade s’indovinano scorci che fanno pensare ai quartieri spagnoli di Napoli o alle vie della vecchia Catania, di Malaga o di Valencia, ma le tipologie edilizie, dopo anni di incuria, rivelano fragilità da carta pesta. Il clima tropicale caldo-umido con frequenti perturbazioni violente, la mancanza di manutenzione e i cambiamenti di destinazione d’uso hanno inferto duri colpi alla indiscutibile bellezza degli edifici pubblici, delle chiese e delle residenze. I palazzi nobiliari e le dimore dei ricchi dell’epoca coloniale avevano sovrastrutture ridondanti: portali con l’aspetto di archi di trionfo, balconi sorretti da cariatidi, ricche ringhiere di ferro battuto, raffinate vetrate colorate, stucchi e fregi di ogni tipo su facciate dagli intonaci con delicati colori pastello. Lo sfacelo attuale impressiona e non consolano la presenza di innumerevoli puntelli e i rari esempi di restauro conservativo. In alcune strade i lavori in corso e l’inserimento di elementi moderni nel delicato tessuto urbano lasciano temere altri scempi. Le chiese di stile barocco cubano, edificate con pietre locali calcaree molto duttili, ricordano in maniera impressionante le facciate leccesi. Forse, la tradizione cattolica dei cubani e la volontà popolare hanno indotto le autorità atee ad aver rispetto e cura degli edifici di culto più importanti della città, che spiccano per la loro bellezza relativamente preservata in quel mare di degrado. La Cattedrale dedicata a San Cristoforo è particolarmente preziosa con la sua facciata descritta dallo scrittore Alejo Carpentier come “musica convertida en piedra”. A pochi passi dalla Cattedrale un turista è quasi obbligato a fare tappa nella piccola calle Empedrado per vedere la Bodeguita del Medio, un piccolo locale dove Ernest Hemingway passava tempo a sorbire il tradizionale mojito cubano. Dopo il Che e Fidel, pare che il famoso scrittore sia il terzo idolo degli habaneros. Nei vicoli le case degli umili rivelano ovunque il livello di miseria raggiunto dal terzo mondo di colore, ma a differenza di altri paesi latino-americani a Cuba si nota una certa reticenza a comunicare con lo straniero da parte degli uomini e una sfacciata tendenza a mostrarsi disponibili non proprio per il dialogo da parte delle donne. Non esiste questua, ma ovunque, anche per concedere il permesso di fare una fotografia a cose e persone si richiedono mance. Molti proprietari di quelle incredibili vecchie auto americane circolanti all’Avana offrono la corsa “all’antica” a pagamento. Sulla grande Piazza d’Armi, all’ombra degli alberi del giardino centrale si può finalmente parlare con qualche cubano venditore di libri usati. La merce è poca a scadente, quasi soltanto libri inneggianti la rivoluzione e i suoi protagonisti dal Che a Fidel, vecchie guide dell’Avana, e libri di Hemingway malridotti. Il Malecón delude brutalmente. Dopo aver letto tanto sulle vicende e la vita dell’Avana, uno spera di vedere uno splendido lungomare a fungere da “corniche” di una bella città. Pare che sia il luogo adatto per le riunioni gaie e la socializzazione popolare, ma la spiaggia non esiste. Si tratta di un tratto di costa sassoso. La passeggiata sembra una autostrada urbana a quattro corsie con scarso traffico lungo una fila di quasi sette chilometri di palazzi cadenti, che verso il fondo sono sostituiti da grattacieli mediocri di un centro direzionale in costruzione. Si parla di un gigantesco progetto di riqualificazione per allineare sulla costa nuovi alberghi e locali di divertimento, ma probabilmente ci vorranno anni per tentare di imitare Copacabana o, chissà, la Promenade des Anglais. Per l’ufficialità, l’Avana ebbe ambizioni da grande capitale. Il “Capitolio”, ad imitazione e più in grande di quello di Whashington, è un gigantesco miscuglio di neoclassico e art déco. Molto magniloquenti le sedi dei musei e il Gran Teatro de la Habana facente parte del maestoso palazzo del Centro Galliego. La metropoli ha grandi arterie in parte con portici, come il Paseo del Prado, che rivelano passate eleganze e ricchezze, ma oggi ovunque si assiste ad un penoso abbandono. Poco fuori dal centro storico e monumentale la città si presenta come una banale urbanizzazione americana con le strade disposte a scacchiera e contrassegnate da lettere e numeri. L’edilizia, pur trattandosi di una città del tropico, copia i criteri moscoviti con grandi e grigi condomini popolari. Solo la vegetazione ravviva lo squallore stilistico e la monotonia degli edifici. Si giunge nella grande spianata chiamata Plaza de la Revolución, paradossalmente voluta dal dittatore Batista nel 1952. Ai piedi dell’alto obelisco e della statua di José Martí si può riunire un milione di persone. La piazza è stata testimone dei teatrali “mitines”, comizi, di Fidel Castro e sullo sfondo la facciata di un enorme palazzo è tutta occupata dal volto del Che. La presenza di molti turisti è un’occasione di lavoro per i proprietari delle vecchie auto americane i quali offrono l’emozione di un giretto a bordo di alate Cadillac del ’59, grosse Chevrolet dai colori inverosimili e altri modelli d’epoca, lasciati sull’isola al tempo della rivoluzione castrista. Un lungo tunnel sottomarino unisce il centro della città all’area collinare dove sorge il massiccio Castillo de los Tres Reyes del Morro, datato 1589, opera difensiva contro i pirati firmata dall’italiano Giovanni Battista Antonelli. Dagli spalti la vista della città è magnifica. Passando sotto la baia nel buio del tunnel bisogna conoscere una leggenda metropolitana. Si dice che colui che riesce a trattenere il respiro durante l’intero tragitto esprimendo un desiderio lo vedrà realizzato. Oggi sembra facile, poiché il traffico è scarso, ma se tutti i passeggeri degli autobus dovessero desiderare l’auto privata verrebbe a mancare il respiro, anche a causa dell’inquinamento. La penuria indotta dal comunismo appare in tutta la sua tristezza dopo il calar del sole. L’Avana è una città buia, forse non pericolosa, poiché i regimi hanno di buono che reprimono la piccola criminalità severamente. Tuttavia, specie nelle grandi arterie del centro dotate di portici, di grandi piazze e belle avenidas alberate, la fioca illuminazione, la scarsità di merci nelle vetrine, i passanti malvestiti e i gruppi di sfaccendati seduti per terra offrono un’immagine squallida della capitale cubana. Nelle periferie le cose peggiorano per la presenza di baracche, ma si tratta della piaga tipica di tutto il terzo mondo africano e sudamericano.
Umberto Mantaut