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Chi ha fretta viene mandato a Banjul

Viaggiando dalle regioni settentrionali del Senegal, caratterizzate dal deserto e dalla savana, a quelle del sud rivestite di foreste pluviali, occorre attraversare un altro stato, il piccolo Gambia anglofono. Da Toubacouta si raggiunge il confine in breve tempo, ma poi il rituale doganale richiede attese esasperanti e noiosissime formalità. I posti di frontiera sono affollati da venditori ambulanti, questuanti e cambiavalute di strada, tutti ugualmente laceri nell’abbigliamento, ma questi ultimi muniti di dignitose borse da contabile con tanto di calcolatrice. In Senegal si usa il franco CFA, chiamato da tutti “sefà”, legato al franco francese da un rapporto di cambio fisso, di cento ad uno. Nel Gambia la moneta ufficiale è il Dalasì con un cambio che si può così riassumere: 10 FF = 1000 CFA = 15 D. I due paesi hanno popoli identici per origini razziali, costumi e dialetti, ma, purtroppo, hanno subito dominazioni e vicende coloniali assai differenti le cui conseguenze impediscono un’unione sotto un’unica bandiera. Nel 1982 si tentò di creare un Senegambia, entità statale unica, suddivisasi ben presto di nuovo in due stati che non vanno d’accordo per molti motivi fiscali, monetari e linguistici. Infatti, mentre nel Senegal francofono si parla un francese cantilenante, il Gambia è rimasto fedele alla lingua inglese con il forte accento West African. Il Gambia non solo è il più piccolo stato dell’Africa, quasi sconosciuto e ben poco nominato nel contesto internazionale, ma fa parte della lunga lista nera dei paesi più poveri del mondo, perché privo di risorse e schiacciato fra le due parti disuguali in cui si suddivide il più potente Senegal. Dopo la frontiera politica s’incontra una barriera naturale ben più difficile da superare, il fiume Gambia, larghissimo in prossimità dell’estuario. Le sue acque dolci, giallastre ed infide si rimescolano continuamente con i flutti amari dell’Atlantico dalle forti maree e dalle imprevedibili correnti. Traghettare è dunque un’impresa perigliosa, specie se si osservano le caratteristiche dei natanti malconci, lenti e stracarichi che si avvicendano alle estremità di pontili precari. In questi luoghi il tempo e lo spazio assumono dimensioni inconsuete ed indefinibili. In Europa, per un traghetto è prevista una tabella con rigidi orari, si rammentano ai viaggiatori le distanze, i tempi di percorrenza, le norme di sicurezza, c’è sempre un grande orologio digitale che indica la data, l’ora e talvolta persino la temperatura del momento nei porti di partenza e d’arrivo, infine, gli altoparlanti sollecitano i passeggeri indirizzandoli alla loro nave su un molo ben identificato. Sul fiume Gambia si paga un pedaggio in un bugigattolo lurido, fra rifiuti e mercanzie, ci s’avvia disorientati da un sole accecante verso pontili malridotti e ci s’accampa per attendere a tempo indeterminato. Di certo si sa soltanto che da quelle parti attracca ogni tanto un vecchio ferry e talvolta partono grosse piroghe per i viandanti privi di un veicolo proprio e con poco bagaglio. Per farli salire a bordo si danno da fare certi sancristofori neri e robusti che li portano a spalla dalla riva, naturalmente dietro un modesto compenso. Il pubblico che attende di traghettare il minaccioso Gambia è variopinto e indolente. Offre spunti per meditare sulle condizioni di un continente in bilico fra arretratezze preistoriche e frenesie occidentali. Un vecchio color ebano attende con un fagotto in mano con l’espressione ansiosa di uno che sta per salire su un intercity in procinto di partire. Una madre magrissima porta due gemelli mocciosi, uno dei due addormentato in una sacca sul dorso a destra, l’altro sostenuto sul braccio sinistro. Questo piccino mastica cipolle fritte, le vomita in parte e la madre, per non sprecarle le passa ad un terzo marmocchio appeso alla sua tunica sdrucita. Ci sono contadine avvolte in stoffe vivacissime, accoccolate lì da ore con certi polli scheletriti con le zampe legate, affinché non scappino. Ogni tanto i poveri animali assetati si mettono a starnazzare tutti insieme, sollevando un polverone. Un’altra parte del molo è invasa da venditori attivissimi nel piazzare merci di contrabbando, assillanti mercanti di cianfrusaglie, cambiavalute, camion coperti di ruggine carichi d’ortaggi, bovini vivi ed esseri umani impassibili nel calore soffocante, vetture ammaccate i cui autisti dormono con le gambe nere allungate fuori dei finestrini, le piante dei piedi stranamente rosee rivolte al cielo. Ad un tratto la folla ondeggia pigramente sotto il sole implacabile. In lontananza fra i vapori del fiume si profila il ferryboat, un tempo bianco, ora a pelle di leopardo con macchie marrone di ruggine e sudiciume. Con calma esasperante attracca. Una fiumana umana scende lentamente, poi si muovono i veicoli fra nuvole di nafta incombusta e fragori di marmitte scassate. Quando finalmente si è rifatto il carico, anzi lo stracarico, il natante riparte rollando paurosamente, mentre una nuova moltitudine s’affolla sul pontile. A bordo, masserizie, merci, veicoli, animali e corpi umani si stringono a stretto contatto. Per fortuna, l’aria in movimento disperde in gran parte certi odori insopportabili, mentre sul ponte superiore ricominciano vivacemente le contrattazioni delle merci. Intanto, la gente, dopo la lunga attesa sonnolenta, si fa più loquace. C’è un perito agrario gambiano che parla delle sue difficoltà a proseguire gli studi in una capitale priva di una seria università. Ci sono studenti in gita, contadini senegalesi, venditrici d’indumenti e cappelli di paglia, disposte a ridere e scherzare con i passeggeri. Qualcuno tira fuori un pezzo di carta o di cartone con il proprio indirizzo già scritto in previsione di nuovi contatti. Questa gente ha un desiderio enorme di fare amicizia, comunicare e ricevere posta dall’altra parte del mondo. Gli abitanti di Banjul, negletta capitale del piccolo Gambia, forniscono indirizzi molto anglosassoni, con nome, cognome, numero civico, strada, e codice d’avviamento postale. I senegalesi danno indicazioni assai vaghe e pittoresche: mi chiamo Papis Mancara, figlio della signora Fatonchissé, di fronte alla panetteria di Bougotte, villaggio di Sarcounda a Ziguinchor, Senegal. Banjul appare sull’altra sponda del Gambia. Si sbarca. Case bianche ed alberi frondosi delimitano grandi piazze con un prato rettangolare al centro, che dovrebbe essere “all’inglese” se non ci fossero tanta polvere e troppo pattume a rovinare l’effetto. Britanniche pretenderebbero d’essere pure le strade della zona ministeriale. La capitale non sembra avere molte ambasciate nel quartiere riservato ai diplomatici e agli alti funzionari governativi. Alcuni affermano che al momento il piccolo miserrimo paese sia nelle mani di un ragazzaccio che si è impadronito del potere con un colpo, che qui sarebbe più corretto chiamare “colpetto” di stato. Per risolvere i problemi economici insormontabili, il Presidente ha deciso di trasformare Banjul in porto franco per paccottiglia asiatica. Il mercato centrale di Banjul è semplicemente allucinante. Per visitarlo occorre procurarsi la scorta di solerti poliziotti con il compito di tenere lontani i pickpockets, cioè i borsaioli, contenere l’assalto al cliente da parte dei mercanti e le insistenze degli artigiani locali, i quali pur di vendere qualcosa ai pochi turisti di passaggio li martirizzano fino al punto di disorientarli. Guai a chi mette mano al portafogli; la vista del denaro porta l’invadenza a livelli parossistici. In tali condizioni le scelte e le contrattazioni sono praticamente impossibili. In breve, conviene rifugiarsi in un albergo in riva al mare e non uscirne più. Poco a sud di Banjul, lasciata la periferia di catapecchie, si può rientrare nel Senegal meridionale, noto come Casamance, dal nome del fiume che vi scorre. Si affrontando le stesse faticose formalità di frontiera, ma in un posto di confine terrestre privo di quella corte dei miracoli già incontrata sulle rive del Gambia. Qui domina una polvere rossiccia, poiché le strade d’accesso hanno un asfalto incerto, un fondo ottenuto con conchiglie di fiume triturate e terriccio pressato. Per fortuna il paesaggio s’arricchisce progressivamente di una vegetazione lussureggiante. La strada è continuamente attraversata da famiglie di scimmie agitatissime, magre capre solitarie, faraone spaventate e rarissimi viandanti. Si frena e si sobbalza di continuo. Incontrando un altro veicolo sulla stretta carreggiata, poiché nessuno dei due autisti vuole scansarsi e mandare due ruote nella cunetta, è quasi normale un urto di lamiere, qui considerato una forma cordiale di saluto. Nessuno si ferma per costatare i danni, perché i veicoli locali dimostrano di avere carrozzerie a geometria variabile. Per un pallido europeo abituato a adire le vie legali per un piccolo tamponamento, a coprirsi di polizze assicurative a mo’ di casco contro ogni rischio, a fare causa al sindaco per una buca nell’asfalto, una capatina in Gambia è una lezione di vita. Per certe cose i miseri si comportano a volte da veri signori. In quest’Africa derelitta si rimane sconcertati. Sulla soglia delle loro catapecchie dove si vive nella miseria più nera, gli indigeni sorridono agli stranieri di passaggio. E’ uno spettacolo d’indumenti dai colori vivaci, braccia magre che si agitano, mani nere che salutano, occhi e denti bianchissimi sui volti di cioccolata.

Umberto Mantaut

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