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Ucraina – 19 agosto 1991

Con la scusa del covid usato come clava, per mesi, ci hanno colpito alla nuca, incarcerati in casa nostra, imbavagliati, ma gli italiani sono un popolo paziente e saggio, hanno apprezzato le mobili intenzioni di proteggersi dal visus che si è ritirato solo grazie alle vaccinazioni di massa, ma nessuno ha assecondato la manifestata speranza di assoggettarci al regime giallo, giunto fino a noi lungo la riaperta via della seta. Ora alcuni sperano nella pustola della scimmia, ma con loro rammarico ci si gratta e si guarisce e non possono terrorizzarci nuovamente con il lugubre elenco serale dei morti. Come manna dal cielo russo, un missile ha fornito la nuova mazza ferrata per castigare i gaudenti. Gente che non saprebbe fare l’elenco corretto dei capoluoghi di provincia della nostra bella Sicilia, si riempie la bocca dei nomi impronunciabili di città, paesi, villaggi, gruppi di case bombardati dagli invasori russi, o meglio sovietici. Strano che i più indignati siano proprio coloro che approvarono la distruzioni e agli assassinii di civili compiuti con i carri armati invasori a Praga o Budapest negli anni d’oro del comunismo sovietico. La nostra gente è stanca, è estate, vuole vivere, spegne la tv e va in vacanza. Becchini e impresari di pompe funebri non si impressionano più di fronte ai morti. L’uomo comune alza le spalle se fra le pubblicità martellanti di dentifrici e deodoranti gli fanno vedere dieci volte al giorno lo stesso palazzo sventrato dalle bombe, la povera anziana piangente, il ciclista mitragliato o, con tipico buon gusto dei cronisti, la stessa mano di una povera donna ammazzata con tracce di lacca rossa sulle unghie, resta cinicamente indifferente. Pensa a un film ambientato in luoghi lontani o a un videogioco violento. Per molti l’Ucraina è una pianura lontana e sconfinata, con il colore giallo delle messi mature sotto un cielo blu, i colori della bandiera di un popolo fiero, nobile, colto e come noi profondamente europeo. Pochi ci sono stati. Kiev non è Parigi e le spiagge su Mar Nero non offrono i divertimenti di Rimini. Fra gli appunti di lontani viaggi ho ritrovato un diario datato 19 agosto 1991. Forse la lettura a qualcuno può interessare.

 “Nell’URSS odierna è assai facile entrare, ma poi è arduo uscirne, come si può dire dei labirinti e delle galere. Durante la notte fra domenica 18 e lunedì 19 agosto 1991, lasciamo una Minsk addormentata e deserta per correre verso Brest sull’autostrada priva di traffico. Prima di partire, Inna con le lacrime agli occhi ci regala un pezzo di pane nero, l’unica cosa che può donare. Si viaggia abbastanza veloci nel rispetto dei limiti, poiché le multe dei “gay”, così si chiama la polizia stradale locale, causano più noie che danni, nel senso che bisogna sottostare ad incredibili lungaggini burocratiche oppure corrompere, cosa che diverte all’inizio, ma poi avvilisce. Alla frontiera polacca si presentano file chilometriche di veicoli. Ci dicono che l’attesa può durare da due a cinque giorni con obbligo di bivacco nelle auto per non perdere il turno. Sono cose inconcepibili per noi, ma russi e polacchi sembrano rassegnati e attendono con la pazienza accumulata con l’abitudine. Decidiamo ci tentare l’uscita da Cop, ottocento chilometri a sud, attraverso l’Ucraina. Le negatività osservate e sofferte in tanti giorni ad un certo punto si sommano. Vengono un senso d’angoscia e la voglia di tornare a casa, lontani dallo sfacelo dell’URSS, identico in Ucraina, Bielorussia, Lituania, Russia e in tutti gli altri paesi satelliti dell’immenso impero sovietico. S’avverte l’ossessione d’essere limitati nelle libertà, come ospiti di passaggio nel cortile di un carcere le cui serrature possono scattare da un momento all’altro per volontà dell’ultimo imbecille al potere. Ore d’auto su strade pessime, segnaletica incerta, villaggi miserrimi, la campagna trascurata, città in disfacimento, penuria di benzina, assenza di locali dove trovare non un inesistente caffè ma un semplice bicchiere d’acqua fresca. Si aggiungano le urla sguaiate delle cassiere delle stazioni di servizio, la borsa nera dei carburanti, la corruzione a tutti i livelli che non migliora una situazione orribile e sporca l’immagine di popoli nobilissimi e si giunge ai risultati finali della stupida criminalità del comunismo. Per tutto il viaggio di ritorno rievoco un manifesto dai colori truci che gli oppositori dell’ineffabile Palmiro affiggevano nel ’48 sui muri di Torino. Ad undici anni, andando a scuola mi terrorizzava la visione di una piovra rossa gigantesca con la testa su Mosca, gli occhiacci puntati sul mondo intero e i tentacoli orrendi protesi verso l’Italia. Gli operai sul tram brontolavano dicendo trattarsi di sporca propaganda dei preti. Loro attendevano un messia chiamato affettuosamente “baffone”. Oggi la piovra è un mostro afflosciato e baffone fa compagnia all’inferno a Hitler, suo degno compare, ma il comunismo è ancora un brutto animale dal colore rosa con macchie fecali, simile ad una scrofa stravaccata, il grugno sulla Piazza della Pace Celeste di Pechino, le natiche ad opprimere San Pietroburgo e la coda a ricciolo ridicolmente puntata su Cuba. La bestiaccia, deperita per errori d’alimentazione, perduto il senso materno di vigile nutrice del proletariato, sta divorando i suoi stessi figli. I cari compagni nostrani pensano forse che si tratti ancora di propaganda di preti, ma dovrebbero informarsi presso gli allevatori di porci circa l’aberrazione del cannibalismo delle scrofe malnutrite verso la loro stessa prole. Baranovici, Kobrin, Ratno, Koval, Vladimir Volynski, Nesteroy, L’vov, Nikolaev, Stryj, Mukacevo, un rosario di città che in Italia nessuno ha mai nominato. Milioni di esseri umani che hanno sgobbato a vuoto credendo in idiozie, ora sono stremati, delusi, increduli, incattiviti, invidiosi e svuotati fra case decadenti, macchinari pieni di ruggine, panetterie vuote, denaro senza valore e valori morali e materiali da riscoprire. A Cop la fila è lunga ma accettabile. I doganieri sembrano impazziti e danno ordini concitati. Uno di loro più gentile ma nervosissimo, ringhia un ordine – questi falli passare alla svelta – e mentre ci apre tutti i bagagli aggiunge – non sapete ciò che è successo? Infine, senza spiegare nulla, dà il via dietro un autobus ungherese, ma anche il doganiere magiaro, dopo il ponte sul fiume Tissa, sembra alterato, fa storie per la valuta e ci fa passare velocemente. La prima città è Nyiregyhàza. All’hotel crolliamo addormentati. All’alba del 20 agosto, la radio dell’auto annuncia affannosamente in tutte le lingue europee che a Mosca è in atto da ore un colpo di stato e l’intero impero sovietico s’avvia al caos. Decidiamo di rientrare a Roma in una sola tirata. La scorciatoia di Trieste, via Maribor e Lubiana, è rischiosa perché è in corso una guerra civile in Jugoslavia. L’Ungheria ad oriente mostra penose cicatrici di regime e aspetti deprimenti. La strada è affollata e si procede lentamente fra le vecchie “Trabant” dei pochi ungheresi motorizzati e molti veicoli pesanti sgangherati. Dopo Budapest si entra nell’autostrada del Balaton e si respira già aria d’occidente. I budapestini corrono verso le vacanze. Si migliora notevolmente entrando in Austria e il confine di Tarvisio sembra uno scherzo, il cenno di una mano e un semaforo verde verso le bellissime campagne della Carnia e l’opulenta pianura di casa nostra, il nostro paese, il bel paese ricco e libero”.

Dopo la pesante esperienza non può venire nuovamente il desiderio di visitare la povera Ucraina, ma visto ciò che è accaduto altrove, a Praga, Budapest, Berlino Est, Bratislava, Riga, Varsavia e le altre capitali dopo la caduta del regime sovietico è facile immaginare. L’avvento delle libertà, il consumismo, le mode occidentali, in molti casi in un certo senso hanno ubriacato i popoli oppressi. Gli ucraini, a differenza di altri popoli europei, sono molto simili a noi e quel paese ricchissimo di risorse del sottosuolo e granaio del mondo deve aver sviluppato fenomeni simili alle nostre mafie, creato fratture sociali fra nuovi scandalosamente ricchi, piccola borghesia, lavoratori sfruttati e agricoltori mal retribuiti. Anche la maturità politica necessaria per partecipare ad una democrazia compiuta, deve mancare esattamente come fra le nostre masse disorientate da politici indecenti, sedotte da sirene che promettono di capovolgere una situazione catastrofica per apparecchiare una nuova tavola dove sedersi per gozzovigliare col denaro pubblico. Qualcuno riesuma falci e martelli, altri esibiscono senza vergogna la svastica sulla spalla della divisa, si delira di fronte alle battute di un comico e ai lazzi di un giullare, si scende in piazza ci si arrampica sugli specchi, mentre il paese finisce nelle mani di incompetenti, assolutamente impreparati nella difficile materia della buona amministrazione e della geopolitica. Avere un vicino aggressivo come la santa Russia crea terrificanti situazioni. Per uscirne attraverso le tortuose vie diplomatiche appare molto difficile per le caratteristiche dei rispettivi responsabili disposti a trattare di fronte ai disastri e alle vittime, ma non a cedere su alcuni punti, come è necessario in tutte le umane trattative. Dio salvi l’Ucraina da sé stessa e dagli altri, noi compresi.

                                                                                   Umberto Mantaut

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