Fra gli italiani di oggi, per ovvie ragioni anagrafiche, è difficile trovare persone che abbiano ancor vivi i ricordi dell’ultima guerra mondiale, nella quale fummo coinvolti per le scelte scellerate di un certo Benito Mussolini. Costui, se non avesse seguito le follie di Hitler nell’aggredire altre nazioni, sterminare ebrei e nomadi, senza contare ovviamente gli oppositori e tutti coloro ritenuti indesiderabili dai nazisti, sarebbe morto nel suo letto come l’altro suo degno compare, il generalissimo Franco. L’Italia non devastata dalla guerra sarebbe poi passata senza spargimento di sangue alla democrazia, come la vicina Spagna. Lo scrivente, nato nel maggio del 1937, ebbe nell’infanzia esperienze impressionanti e, forse, è opportuno ricordarle in questi giorni bui, perché i “nati dopo”, specie i più giovani cresciuti a base di merendine, cellulari, videogiochi e cartoni animati violenti, comprendano che la guerra, quella vera, è una cosa tragica. La famiglia abitava a Torino, al numero 17 del Corso di Francia, terzo piano, non lontano dalla stazione di Porta Susa, ritenuta dai bombardieri un bersaglio importante. Si dormiva sempre all’erta con una borsa di emergenza pronta. Al primo impressionante lamento delle sirene d’allarme tutti si precipitavano sulle scale per raggiungere il rifugio. Spesso, attraverso i finestroni delle scale, già infranti dai precedenti spostamenti d’aria, si notavano bagliori di fiamme, preceduti da esplosioni fragorose. Per “rifugio” si usavano le cantine del palazzo, vere trappole per topi. Infatti, se una bomba centrava una casa non c’era scampo. Tutti finivano sepolti dalle macerie, soffocati dal fumo o bruciati vivi, poiché le bombe inglesi erano anche incendiarie. Per i più piccoli erano state sistemate delle brandine in un locale più vasto, al centro stavano gli adulti seduti per terra. Le bocche di aerazione erano state tappate con sacchetti di sabbia e l’aria era umida e irrespirabile. Una notte fu colpito un palazzo vicino. Portarono da noi i feriti sanguinanti. Mentre il bombardamento imperversava ancora su tutta la città, le donne incominciarono ad urlare istericamente. Un anziano in sedia a rotelle estrasse una pistola e sparò in aria, intimando il silenzio e invitando tutti a curare i feriti. Poco dopo una donna china su una vecchia svenuta riprese a urlare: “un pidocchio, un pidocchio”. Ne aveva visto uno sugli indumenti della ferita. Il vecchio le puntò la pistola alla tempia per farla zittire. I bimbi se avevano bisogno di fare pipì venivano portati in un corridoio buio dove esisteva un lavandino di pietra. L’esperienza era terribile, perché in quel corridoio il fragore delle esplosioni rimbombava in maniera incredibile. Una sera di tregua, mamma e nonna disperate riuscirono a convincere un proprietario di auto a “sfollarci” in un vicino paese del cuneese. Una signora ci ospitò in un suo seminterrato dotato di una stufetta a legna. Nel cortile c’erano un gabinetto rudimentale e un pozzo con la pompa a mano per avere acqua. Poiché a quattro anni già sapevo leggere e scrivere qualcosa, mi fu concesso di frequentare la prima elementare a cinque anni, con un esame finale di passaggio alla seconda. A quei tempi si iniziava con la noia delle “aste”, con penne, pennini e calamai, si tornava a casa con le mani imbrattate, ma la prima lettera severamente insegnata era la R maiuscola. Tutti dovevano sapere che significava “Rifugio”, stava scritta su tutti i portoni delle case dotate di scantinato. Nessuno, come oggi, andava a prendere i bimbi a scuola, si tornava da soli a piedi e se suonavano le sirene si sapeva cosa fare. Nel cortile e durante l’intervallo le maestre in divisa nera ci facevano cantare certi stupidi inni al “nostro Duce e al nostro Re”. Le foto dei due individui stavano subito sotto il crocifisso in tutte le aule. Francamente il Duce sembrava un pazzoide con gli occhi sporgenti e la mascella volitiva e il povero sovrano sembrava un omuncolo rachitico coperto di medaglie. C’era anche una terza foto, sembrava un lenzuolo con gli occhiali, ma dicevano che era il nostro Papa. Il paesello di provincia non era affatto sicuro. Aveva la stazione ferroviaria. Una mattina, i tedeschi astuti fecero passare un loro convoglio di rifornimenti all’ora del treno dei pendolari, formato da carri bestiame con panche di legno. Quando in stazione quel treno in ritardo fu pieno di gente stipata, gli inglesi male informati arrivarono con gli aerei. Treno, persone, stazione e case intorno furono ridotti in pezzi. Il giorno dopo un carro pieno di macerie lasciò cadere mattoni e una cosa leggera con qualcosa di luccicante. Era la mano di un uomo con ancora l’orologio insanguinato al polso. Un mio piccolo compagno di scuola se ne impossessò sporcandosi le mani di sangue.Vennero i tedeschi, casa per casa, rubando tutto. A noi presero persino le mele nella fruttiera e le patate nascoste sotto il letto. Mamma ci aveva schierati tutti e tre davanti a un armadietto dove teneva fra vecchie scarpe l’apparecchio per ascoltare di notte la proibita radio Londra. Non ci fecero nulla. Lei ripeteva insistentemente “Ich hab’ drei Kinder”, e furono le prime quattro parole che imparai del tedesco. Un gigante biondo accarezzò solo mio fratello dai capelli chiarissimi. Il soldato commosso disse qualcosa del suo bambino. La notte dopo, in un paese vicino, ubriachi, si abbandonarono a ogni sorta di violenze. L’area era sotto il controllo di un gerarca fascista. Mamma che insegnava latino osò dare un brutto voto al figlio di costui. La notte dopo mandò da noi una squadraccia, presero nonno e lo picchiarono a sangue. Il regime gli aveva già tolto la piccola ditta dove produceva profumi, poiché era un anziano socialista, contrario al regime. Finalmente la guerra finì. Le scene di gioia furono incredibili. Poi venne il bello. I partigiani presero il tipo che aveva fatto picchiare nonno e lo gettarono vivo dal sesto piano di un palazzo. Fu meno divertente quando vennero a prendere il figlio della nostra padrona di casa da sfollati. Era uno studente fascitello. I suoi vecchi compagni di scuola gli fecero scavare la fossa e lo fucilarono sotto gli occhi nostri e della madre. Il primo dopoguerra fu durissimo per tutti con altri sconvolgimenti e capriole ideologiche. Nonno riaprì la sua piccola ditta con sette dipendenti. Venivano di notte a cantare bandiera rossa sotto casa e a minacciare. Lui si cercò un impiego alla Fiat, andò dal notaio e regalò la ditta ai suoi cari operai. Dopo poche settimane fallirono, poiché non riuscirono a stabilire chi dovesse comandare. Alla scuola, ormai superiore, ebbi uno scontro con un compagno ebreo. Poveretto, aveva perduto i suoi nei campi di sterminio tedeschi e voleva convincermi che il comunismo è l’anticamera del paradiso. Lo pregai di spiegarmi prima la differenza fra Hitler e Stalin. Ricordo ancora odore e sapore delle sue scarpe da ginnastica che mi sbatté in faccia. A 25 anni mi affidai a un’amica specialista in psicologia e psichiatria in un grande ospedale toscano. In analisi e sotto esperimenti ipnosi mi liberò da incubi e complessi. Basta con il terrore irragionevole per cantine, corridoi bui, cunicoli. Spiegate le reazioni di disgusto verso persone che urlano, donne isteriche, individui avidi che per impossessarsi di qualcosa si sporcano mani e anima, spiegata la istintiva antipatia per quei bimbi capricciosi che i genitori al ristorante mettono a capotavola chiedendo loro per primi “che gradisci caro?”. Chiara la ragione dell’orrore per fascismo, comunismo e tutto ciò che finisce in “ismo”. Certe esperienze ci trasformano in cinici, persino crudeli. I battesimi ci sembrano meste cerimonie per un poveretto venuto al mondo già condannato a morte. I funerali perdono tragicità. Se la morta è una bella ragazza colpita da cancro, ci consoliamo dicendo: “ha finito di soffrire”. Per le lacrime delle vedove inconsolabili ci copriamo la bocca con una sciarpa per nascondere i sorrisi. Quelle già pensano come spendere in crociera con le amiche le pensioni di reversibilità. Basta con i ricordi di guerra e modi di pensare che non mi appartengono più. Forse faranno meditare qualcuno che li legge.
Umberto Mantaut