Quito è la più bella capitale dell’America Andina, una Firenze o forse una Lecce coloniale, ricca di opere d’arte. I paragoni sono sempre azzardati. Qui la facciate sono barocche, sicché più leccesi che fiorentine, ma i muri sono troppo bianchi e il cielo cristallino ha il blu intenso dei paesaggi alpini, non certo paragonabili alle morbide atmosfere toscane o pugliesi. A 2.900 metri di altitudine l’aria è rarefatta, i colori sono intensi e il clima è eternamente primaverile. Quito non ha un fiume e si articola sulle alture dominate da vulcani con qualche pretesa di metropoli americana irta di grattacieli, con grandi strade e centri commerciali modernissimi. Il centro storico è pittoresco e molto animato. Gli indios affollano le strade scendendo da autobus colorati, ma i palazzi hanno la severità delle dimore patrizie di Spagna, con giardini e patii ombrosi, ma la vera ricchezza di Quito è costituita dalle chiese. Si ergono all’improvviso superbe, con le loro facciate barocche. Hanno altari d’oro, arredi seicenteschi, Madonne coloratissime con il Bambino e gli angeli dalle sembianze incaiche, fra ghirlande di fiori che qui non esistono in assenza del clima di Castiglia e frutti tropicali che qui abbondano, ma che Maria Vergine non avrebbe mai potuto assaporare nella desertica Palestina. C’è un misto di sacro e profano, un incrocio fra lo stile iberico e l’arte indigena, qualcosa di cristiano e qualcosa di pagano. L’intera città è considerata una delle meraviglie del mondo da preservare, patrimonio dell’umanità, minacciato dall’affluire di troppi nuovi abitanti, assediato da nuovi quartieri che potrebbero soffocare il bellissimo centro coloniale. Già nel ontano 1978 l’UNESCO inserì a pieno titolo l’intera area storica della capitale dell’Ecuador fra i siti protetti per ragioni culturali. Il sito era abitato già in età incaica, ma lo stile barocco di Quito si deve agli spagnoli conquistatori e ai missionari che curarono particolarmente i luoghi di culto cristiani. Nei Monasteri di San Francesco e Santo Domingo e nei Collegi dei gesuiti e della Compagnia le arti spagnola, moresca, italiana, fiamminga e incaica si fondono e confondono con risultati scenografici impressionanti. Per fortuna, nonostante la tendenza dei paesi dell’America latina di scimmiottare gli Stati Uniti in tema di urbanistica, lo sviluppo di Quito avviene con colate di cemento che aggrediscono le falde del vulcano Pichincha o dilagano nelle periferie e il centro conserva il suo fascino. Una sera all’Hotel Quito, durante un ricevimento, un politico colombiano, dopo avere raccontato gli orrori dello sviluppo caotico di Bogotà, scambiandomi per un responsabile municipale di Quito, a causa anche di una ricca sbornia, mi si è appeso al collo quasi piangendo e scongiurandomi: “Haga que Quito no crezca mas!”, faccia in modo che Quito non cresca di più. Poco a nord di Quito gli ecuadoriani hanno eretto uno dei più strani monumenti esistenti al mondo, un obelisco all’Equatore, un omaggio al dio Sole, Inty. Fra i meridiani e i paralleli l’Equatore è il re, con la sua corte invisibile di linee che avvolgono la Terra da nord a sud, da oriente a occidente. L’Equatore è un sovrano panciuto, con 40.000 km di circonferenza, perciò merita molto rispetto. Sulle navi si saluta il suo attraversamento con lo champagne, in aereo lo si ricorda appena fra le notizie di rotta, ma per via di terra l’incontro suscita grande emozione. Si esce dalla città in un paesaggio brullo per l’altitudine e le colate laviche che castigano la vegetazione. In breve si raggiunge San Antonio de Pichincha e si fa sosta in un piccolo ufficio dall’aspetto molto burocratico. Un funzionario rilascia al viandante un solenne diploma alla presenza di due testimoni. I timbri ufficiali consentono di essere ammessi alla visita del monumento equatoriale con le carte in regola. Eccolo, finalmente, l’Equatore materializzato al suolo sotto forma di una linea di cemento grigia in campo rosa. Loro la definiscono “la mitad del mundo”, la metà del mondo! Ci si può mettere a gambe divaricate, un piede nell’emisfero nord, l’altro nell’emisfero sud, un occhio alla Stella polare, l’altro alla Croce del sud. Ci si può stringere la mano stando in due parti del mondo differenti, mentre a nord è estate e a sud pieno inverno.
Umberto Mantaut