Memore e nostalgica del suo passato principesco, la città s’adagia sonnolenta nella pianura umida sulla sponda meridionale del grande fiume. Piacenza ha il suo sguardo rivolto a Milano e i piedi puntati verso la lontana Romagna intesa quasi come una terra già meridionale, accarezzata da brezze marine, mentre qui, in piena Padania, assai di rado il vento spazza via le nebbie invernali e le foschie dell’afosa estate continentale. E’ difficile immaginare Piacenza nel ruolo di capitale, ma nel periodo d’oro del Granducato di Maria Luigia la città aspirava al titolo, gareggiando con la vicina Cremona e la sorella maggiore Parma, destinata a diventare il sontuoso centro vitale del reame. Poiché Parma ebbe il sopravvento, si spiega la sotterranea rivalità che ancora divide le due belle città emiliane. A Piacenza prosperavano ancora alla fine dell’800 e nei primi anni del ventesimo secolo più di 300 famiglie nobili e la città è tuttora piena di splendide dimore patrizie, mentre nel contado si trovano numerosi castelli e borghi fortificati, testimonianze della passata grandezza.
Frequentare Piacenza e i piacentini senza avere approfondito la travagliata storia cittadina, significa considerare questo capoluogo emiliano non dissimile da tante altre grosse città agricole della pianura padana. Infatti, tronfia, ricca e provinciale, Piacenza diede i natali a quella che fu la più grande organizzazione cooperativa agricola d’Europa, la Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, contratta poi prudentemente in un sintetico Federconsorzi, specie in seguito alle probabili lamentele di chi si sentiva apostrofare con un ironia, dato l’acronimo che si formava. I piacentini spiegano che la società cittadina, rimasta di mentalità contadina, si distingue in due nette categorie, i “pes gat” dal nome del vorace pesce del Po, divoratore dei piccoli e dei deboli, e i “bala nüd”, come dire coloro che ballano nudi nella miseria delle loro scarse iniziative nell’aia delle cascine padane. Inutile dire che Piacenza si ritiene popolata da ricchi branchi di pes gat, fuori dall’acqua ma sempre immersi nello sgradevole ambiente umido.
Le amenità del dialetto piacentino si comprendono nei salotti buoni dei nobili locali. In certe ville sontuose si svolgono serate molto divertenti con personaggi di sangue blu e notabili del luogo della grassa borghesia compiaciuti delle loro continue battute spiritose, quasi sempre salaci. Alcuni rivelavano accenti lodigiani e pavesi, i tipi di Bobbio usano parole di indubbia radice ligure. Infatti, nell’alta valle del Trebbia la bella cittadina di Bobbio sembra protesa verso i tornanti della Scoffera con una voglia inconfessata di scendere sul Tigullio alla foce dell’Entella, il fiume definito da Dante “una fiumana bella” che “s’adima” fra Sestri Levante e Chiavari in un’atmosfera solare ben diversa dalle brume piacentine, con l’aria ligure che odora di sansa e rosmarino.
Il conversatore piacentino, ma per estensione in generale l’uomo comune emiliano e romagnolo, ha la passione per tre argomenti, la buona tavola, a Piacenza persino ottima, le donne che a sentire lui sarebbero alquanto “facili” e la politica, qui vissuta in chiave paradossale. Dalle parti di Forlì, in quel di Predappio, questa terra generosa diede i natali nel 1883 a Benito Mussolini, il Duce, esempio elevato all’ennesima potenza del gaglioffo italico. La sua dittatura che sembrava più un’operetta che una lirica verdiana portò comunque l’Italia al disastro, seguito da una guerra civile. In tempo di pace, l’Emilia è tornata ad essere una delle regioni più ricche e produttive d’Italia. L’uomo medio piacentino è un grasso imprenditore agricolo, un piccolo industriale nelle innumerevoli aziende che sono la spina dorsale del manifatturiero italiano, un albergatore, un azionista di gloriose imprese del settore alimentare e metalmeccanico, un ricco commerciante. Tutto questo ceto medio-alto in maggioranza crede nella sinistra estrema, come un sempliciotto Peppone, non con l’autodistruttiva speranza di consegnarsi alla dittatura del proletariato, ma più probabilmente sicuro che il comunismo non verrà mai, anche perché di veri proletari in queste province se ne trovano ben pochi e magari sottostanno ancora alle promesse dei Don Camillo che nelle omelie ricordano che sarà più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, piuttosto che ad un ricco accedere al paradiso.
A monte di Castel San Giovanni il Po serpeggia pigramente formando enormi anse fluviali. E’ già gonfio di acque per gli apporti del Tanaro e del Ticino e con il limo delle terre piemontesi e lombarde ed il via vai secolare di battellieri e viandanti il grande fiume ha portato nel piacentino l’eco dei dialetti alessandrino, novarese e pavese. Per concludere, a Piacenza si parla con un accento molto curioso che di emiliano ha soltanto qualche inflessione quasi inserita come un vezzo da parte dei pochi che non considerano i lunghi ponti sul Po alla periferia settentrionale della città come cordoni ombelicali con la Lombardia, alla quale Piacenza potrebbe essere annessa senza traumi.
A Piacenza ci si dà convegno sulla Piazza dei Cavalli, il salotto buono dominato dalla mole del Gotico, nome attribuito al Palazzo pubblico risalente al 1281. Il nome della piazza si deve alla presenza delle due magnifiche statue equestri dei Farnese che s’ammirano al centro della stessa, che, nonostante la superbia dei piacentini, rivela il suo ruolo di luogo di ritrovo assai provinciale, sede di interminabili conversazioni d’affari, inevitabili pettegolezzi paesani, ozi di pensionati e convegno di giovani in cerca di approcci amorosi.
La provincia piacentina si sviluppa tutta a sud del capoluogo, prima dilagando nella pianura e poi salendo dolcemente su amene colline e i contrafforti dell’Appennino fino alle fonti del Trebbia e del Nure sulle aspre alture che segnano lo spartiacque fra l’Emilia e la Liguria. Le ricche cittadine agricole dell’area pianeggiante e molto fertile sono sostituite più in alto da antichi borghi arroccati con pittoreschi nuclei medievali, ma uno dei villaggi più frequentati dai turisti è senza dubbio il curiosissimo borgo di Grazzano Visconti.
Nel 1386, Gian Galeazzo Visconti, colui che pose la prima pietra del Duomo di Milano, autorizzò Giovanni Anguissola, marito di sua sorella Beatrice, a costruire sul sito di Grazzano un castello medievale, intorno al quale si sviluppò un tipico villaggio. Tuttavia, dopo una lunga decadenza, soltanto agli inizi del novecento, il conte Giuseppe Visconti di Modrone, ispirato da sentimenti romantici ed intuizioni “turistiche”, decise di riprodurre come una scenografia teatrale l’urbanistica e l’ambiente del borgo medievale, creando quasi dal nulla una curiosità destinata ad attrarre una moltitudine di visitatori desiderosi di ritrovare scorci pittoreschi e antichi mestieri, spettacolini in costume e prodotti artigianali, insomma, in un mondo fittizio l’emozione di un tuffo nel passato.
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