I lupi sono predatori che dovrebbero assicurare l’equilibrio ecologico sui monti. Il problema è che, esauriti i prelibati caprioli, quando sono affamati scendono a valle e azzannano gli agnelli, con gioia dei pastori. Quelli che infestano il Montecitorio sono molto peggiori. Non perdono né il pelo né il vizio. Il pelo lo hanno sullo stomaco e sul cuore. Trattano i cittadini come sudditi da massacrare con una burocrazia mordace, succhiando poi il sangue mediante una tassazione allucinante. Ora, considerando che le vittime si agitavano troppo, hanno escogitato metodi per imbavagliarle e immobilizzarle, colpendo i cervelli con un martello camuffato da attenzione sanitaria. Il loro vizio si chiama “politichese”. Precisiamo che dopo un secolo e mezzo di unità, l’Italia, per sua natura geografica e varietà culturale, è rimasta multietnica e multidialettale. Si tratta di una ricchezza da non disperdere, ma non ha mai funzionato bene la diffusione di una lingua “italiana” scritta, parlata e compresa da tutti dal Brennero a Lampedusa. Si dice che Dante sia il padre della nostra bella lingua, ma riconosciamo che pochi riescono a leggere e capire la cantiche della Divina Commedia, con radici latine e del vernacolo volgare. Tutto meraviglioso come i racconti fantastici di un bisnonno per chi ha la fortuna di averlo. Per un certo tempo si sostenne che l’italiano migliore si poteva udire in treno fra Roma e Firenze, poi il romanesco ha avuto la meglio e ci stanno bene pure le battute mediate dai vari dialetti. Nel terzo millennio siamo entrati con l’italiano orrendamente contaminato da termini stranieri, prevalentemente inglesi, a loro volta storpiati per grafia e pronuncia. La nuova generazione gestisce un idioma per soli iniziati, un misto di sigle e parole contratte, per le quali occorre una preparazione adeguata, perdonando con sufficienza i vecchi che non capiscono nulla, xké cmq cvb, perché comunque ci vogliamo bene. In fondo il popolo si difende, come fanno i bambini che inventano un loro gergo per non farsi capire dai genitori quando organizzano marachelle. Indifesi, invece, siamo di fronte al politichese dei lupi di Montecitorio. E’ un linguaggio contorto, un labirinto verbale, creato per far credere ai sudditi che si dicono cose importanti e sagge, si deliberano provvedimenti utili, si fanno leggi ragionate, mentre in effetti si “ciurla nel manico”. I politici sono capaci di dire tutto e il contrario di tutto durante uno stesso sproloquio, ripetendo fino allo spasimo ovvietà. L’Italia, quando si ricordano di citarla, la chiamano “questo paese”. Si deformano e piegano persino concetti rigidissimi, arrivando a ipotizzare che le parallele convergano. Il Parlamento non è più un punto attraverso il quale passano infinite rette e rettitudini, ognuna con una sua rigidità, ma infinite storture, che dal potere legislativo rimbalzano sull’esecutivo e quel che è peggio sul giudiziario. Tornando al nostro povero italiano, le fauci dei politici grondano inglese, sicché il politichese risulta complicato per i cittadini che non hanno avuto un papà che paga i corsi a Brighton. La Gran Bretagna, un bel giorno, ritenendosi una pollastra adulta e vaccinata si è sottratta alle cure della chioccia Europa, ma nel pollaio di Bruxelles sono rimasti circa trenta galletti e varie gallinelle a cantare con i versi di Shakespeare. Noi, di fronte al famoso “to be or not to be”, tradotto “tubi o non tubi”, non comprendiamo un tubo, ed è appunto ciò che i politici desiderano. Per Pasqua le pollastre di Bruxelles ci hanno offerto un uovo, già sodo per paura che l’Italia non lo sappia cucinare a dovere. Si chiama “Recovery Fund”. I nostri, badando bene a non tradurlo in “fondo di recupero” oppure “fondi per la ripresa”, si sono riempiti le fauci, sognando di riempirsi poi le tasche. Bruxelles esige un “Recovery Plan”, trasformato nell’acronimo PNRR, che non vuol dire Potremmo Noi Ridiventare Ricchi, ma Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ohibò, un italiano con parola strana, insomma “politichese”. Le masse avrebbero capito subito tutto se si fosse parlato di “resistenza”, non quella sacra contro la dittatura, ma la capacità di superare i danni da pandemia, tirarci su le brache e ricollocarci, come un tempo, nel novero dei paesi sviluppati. Tutti a cercare sul vocabolario “resilienza”. Esiste davvero ed è buon italiano. Si tratta della “capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti”, lo sanno gli esperti in biologia, ingegneria, psicologia, informatica e altre scienze. Insomma, il popolo sovrano non capisce bene, perché sprovvisto di laurea corta, ma chi se ne frega. Sembra che in quel “Plan” ci siano progetti ambiziosi, importante che siano costosi e assicurino “margini”, specie nelle aree dove comandano indisturbate le mafie. I lupi hanno già l’acquolina in bocca, dal grigio cielo belga piovono “fantastriliardi”. C’è da tremare. Si riparla di una Salerno-Reggio Calabria con le frecce rosse. Per carità, il nostro povero sud ha una necessità impellente di rinascere con moderne infrastrutture, ma se si ripeterà la mangiatoia scandalosa della autostrada numero tre, ci vorranno decenni di imbrogli. Ma qui interverrà la “resilienza” di Bruxelles e della Ursula, che è scarsa in materia di contratti, ma vuole veder chiaro negli appalti e ci conosce bene. Intanto, dal politichese è nata una nuova espressione “transizione ecologica” e il popolo ha già compreso che si faranno ricchi i soliti noti, deturpando l’Italia con orribili pale eoliche e pannelli solari, mentre il popolo rimarrà al verde, anzi in “greenwasching”.
Umberto Mantaut