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Lamu

La città di Lamu

Maldive, Seychelles e Mauritius godono di fama internazionale come arcipelaghi paradisiaci cullati dalle tiepide maree dell’Oceano Indiano, ma altre collane di isole adornano i litorali dell’East African Coast. Di fronte alla Tanzania le grandi isole di Zanzibar e Pemba e nel nord-est del Kenya l’arcipelago di Lamu uniscono alla particolare bellezza naturale un certo interesse storico ed etnografico. L’isola di Lamu non è ancora facilmente raggiungibile dal turismo di massa e il suo parco marino è considerato un gioiello incontaminato dell’Africa equatoriale.  Il mese di marzo è il più consigliabile per questo insolito viaggio, in lingua swahili marzo di chiama “muezi wa tatu”. L’interstatale che collega Tanzania e Somalia attraversa tutta la regione costiera del Kenya, ma per lunghi tratti  è assai dissestata e piena di buche, poi, una trentina di miglia a nord del fiume Sabaki, l’asfalto finisce e si deve viaggiare su una pista insicura di terra battuta. Infine, occorre traghettare da Mokowe a Lamu su vecchie barche a motore. L’isola dista solo mezz’ora di lancia dal continente e in linea d’aria è molto vicina alle acque territoriali somale. Pertanto questo viaggio è pericoloso e conviene affidarsi agli aerei. La pista d’atterraggio dell’arcipelago è situata sulla piatta isola di Manda, poco abitata e orlata d’arenili di sabbia candida con baobab e acacie che crescono a pochi metri dalla battigia. Ci s’arriva comodamente in quaranta minuti da Malindi su vecchi turboelica fabbricati a Praga, evitando varie ore di “matatu”. Forse si perde un po’ il contatto con il bush selvaggio, ma lo si può ammirare volandoci sopra a bassa quota. Di mattina, i colori dell’arcipelago sono brillanti, prodigiosamente smaltati nella luce accecante del sole sorto dall’oceano che qui forma una serie di canali fra le isole. Spiccano il candore della sabbia delle magnifiche spiagge, il marrone dei tetti di makuti delle capanne indigene, il grigio elefantino dei grandi tronchi dei baobab, il verde brillante delle foreste di mangrovie, il blu intenso del mare e il verde azzurrino delle alte chiome delle casuarine che ombreggiano i villaggi. Purtroppo, la città vecchia di Lamu è ormai solo un esempio troppo degradato e sudicio della medina arabo-swahili del XIV secolo. Nei vicoli s’affacciano antichi palazzi fatiscenti, con portali d’ebano finemente intagliato, testimonianza polverosa e trascurata del gusto e della magnificenza delle famiglie che, nell’età d’oro dell’arcipelago, vivevano qui nel lusso e nell’abbondanza. Comunque e giustamente l’UNESCO dal 2001 ha dichiarato la città di Lamu patrimonio dell’umanità, definendola testualmente come “il più antico e meglio conservato insediamento Swahili in Africa orientale, avendo mantenuto le sue funzioni tradizionali. Costruita in pietra corallina e legno di mangrovia, la città è caratterizzata dalla semplicità delle forme strutturali arricchita da caratteristiche quali cortili interni, verande e porte in legno finemente scolpite. Lamu ha ospitato grandi feste religiose musulmane dal XIX secolo, ed è diventato un importante centro per lo studio della cultura islamica e swahili.”
Oggi, chi considera romantiche e interessanti le miserie africane può visitare il mercato alimentare di Lamu. Ci s’inoltra in vicoli stretti e maleodoranti, scansando gli escrementi di asini e capre e cercando di non mettere i piedi nei rigagnoli che fungono da fogne a cielo aperto. S’arriva in una piazzetta che sembra il cortile interno di una misera dimora. A terra mucchietti di verdure fresche, tuberi e manioca ospitano famiglie di scarafaggi bruni e frenetici, che i mercanti non scacciano, poiché probabilmente non li notano neppure. Su banconi di legno s’aprono in disordine sacchi di riso, zucchero, farine, legumi, peperoncino e spezie, visitati dalle stesse mosche mordaci che torturano senza posa i passanti, gli asini e i gatti, i quali si grattano furiosamente fra gli alimentari. Dopo questa esperienza sorgono molte perplessità nella scelta dei cibi nei ristoranti, ma basta bandire le verdure e ripiegare su pesci e crostacei alla brace e patate molte fritte. Nel tè e nel caffè bollenti si cerca di mettere poco zucchero bruno, contendendolo alle mosche e a certe formiche africane piccolissime, veloci e quasi invisibili, perché biancastre. Fra le bancarelle protette da tende luride e stracciate, s’aggirano le massaie musulmane avvolte da neri indumenti e completamente velate in modo da lasciare scoperti solo gli occhi vivacissimi e penetranti, ma evidentemente incapaci d’inorridire di fronte alla incredibile sporcizia della città. Nei vicoli si ripete lo spettacolo inquietante dei giovinastri indolenti e sfaccendati che attendono il momento opportuno per derubare i mendicanti delle monetine che sono riusciti ad ottenere con insopportabili litanie. I negozianti cercano di convincere i passanti ad entrare per poi assillarli affinché acquistino con le interminabili trattative del mercato arabo. Dai minareti si diffonde il lamentoso invito alla preghiera nelle ore prestabilite. Poche migliaia di abitanti hanno trovato il modo di separarsi in due fazioni, una sciita e l’altra sunnita, con freddi rapporti fra di loro, ma con un’equa suddivisione delle 24 moschee della città, forse gli unici edifici tenuti puliti in tutta Lamu. Un piccolo museo etnografico occupa un antico palazzo arabo, affacciato sul canale che separa l’isola di Lamu da quella di Manda. I reperti polverosi e le scarse documentazioni riguardano le differenti razze indigene che vissero e vivono tuttora nell’arcipelago, con in comune il modello di cultura arabo-swahili, tipica dell’antica Lamu.
L’isola era una roccaforte del Sultanato di Pate, arricchitosi con il lucroso commercio degli schiavi, esattamente come l’isola di Zanzibar, ma sulla piazza di Lamu si scambiavano copiosamente anche l’oro e l’avorio, l’ebano e le spezie, i prodotti artigianali e i prelibati frutti della pesca nell’oceano che offre tuttora pesci pregiati, aragoste, gamberi, granchi e un tipo di alga gustosissima quando è fritta nell’olio di semi. La decadenza, la perdita di potere degli arabi e degli indiani, un tempo arbitri dei commerci nell’arcipelago, l’aumento della popolazione dell’indolente razza africana locale di religione musulmana, ma soprattutto la fine della compravendita di esseri umani, dopo la proibizione della schiavitù, hanno condannato Lamu ad un ruolo molto secondario in una regione senza risorse. Qui molti sperano nel turismo, purché non si riveli un’arma a doppio taglio, ma non si notano iniziative incoraggianti.
Con il nome pomposo di Lamu Palace Hotel, il migliore albergo di Lamu è un simpatico edificio coloniale, con arredo tipico africano e una discutibile cucina. Si dorme nei grandi letti kenioti, comodi, con baldacchini dai quali scendono candide zanzariere. L’incubo malarico è sempre presente e, dopo il tramonto, occorre coprirsi bene e usare repellenti contro le punture dei malefici insetti. Come in tutte le località minori del Kenya si va soggetti a sospensioni dell’erogazione dell’elettricità, i collegamenti telefonici sono precari, non arrivano giornali e non si captano radio e televisioni internazionali. C’è il rischio di cadere in crisi d’astinenza da notizie. I pochi ardimentosi che scelgono Lamu per svernare trascorrono giornate d’una splendida monotonia. Dopo la prima colazione, Alì, aitante barcaiolo dell’albergo, trasborda i bagnanti sull’isola di Manda, a bordo della sua vecchia lancia dotata di un motore fuoribordo afflitto da accessi di tosse. Nel canale s’incrociano barche di pescatori e molti caratteristici “dhow” dalla grigia vela triangolare. Sulle rive, lontano dall’abitato, spiccano alcune ville lussuose di estrosi personaggi ricchissimi, europei ed arabi. Sulla spiaggia più bella di Manda, desertica e dotata di sabbia finissima d’un candore accecante, l’albergo ha realizzato alcuni capanni con letti a dondolo dove oziare all’ombra. Ci si bagna in acque cristalline in compagnia di pesci multicolori. L’unico rischio che si può correre è quello di essere derubati degli occhiali da sole da parte di qualche babbuino incuriosito dagli oggetti che luccicano. Si può vedere da vicino qualche gigantesco tronco di baobab sviluppatosi sulla riva dell’oceano, senza inoltrarsi troppo nel bush per timore dei serpenti velenosi. All’ora del lunch, Alì ritorna con la sua barca portando il pranzo: pesce arrosto, crostacei, patate fritte bollenti e bibite fresche. Al tramonto si rientra a Lamu un po’ malvolentieri. Dal canale spira una brezza greve che allevia solo in parte la calura che incombe sull’arcipelago. A Lamu c’è la tipica atmosfera della zona delle calme equatoriali, con qualcosa di malsano che sembra sfiorare la pelle, affligge l’olfatto e toglie l’appetito.
L’umanità dolente del luogo produce fetori insopportabili e offre spettacoli “disumani” che confermano quanto siano tuttora pesanti le conseguenze della punizione inflitta a Adamo ed Eva. I discendenti di pelle nera di questa coppia sciagurata vivono tuttora, senza rendersene conto, in un paradiso terrestre. La natura dei luoghi, il clima, la flora e la fauna conservano intatta la bellezza dei primordi. Gli alberi da frutta producono spontaneamente magnifici manghi, papaie, ananas e banane. Non si comprende come Eva abbia potuto essere così sciocca da desiderare un’insipida mela, frutto che qui non si può sviluppare bene in assenza dei freddi invernali. I serpenti sono tuttora infidi, ma conoscendoli si possono evitare. Purtroppo l’umanità africana appare più marchiata di noi dal tremendo peccato originale, sicché nei suoi miseri villaggi, ma soprattutto negli agglomerati urbani riesce assai bene a crearsi un ambiente infernale dove sudare, soffrire e partorire nel dolore i suoi innumerevoli figli, incolpevoli, ma condannati fin da piccini ad una vita grama. A Lamu si giunge al punto di considerare gradevole il lezzo dell’urina degli asini. Questi animali fanno tenerezza. A centinaia s’aggirano liberi nei vicoli e sulle rive del canale. Sono d’una razza di taglia minuta dal mantello bigio con striature di crini nerissimi e il ventre chiaro. Rappresentano l’unico mezzo di trasporto dell’isola e sono sfruttati senza pietà come bestie da soma. Hanno un carattere mite e uno sguardo rassegnato, ma devono possedere una vivace intelligenza. Quando sono ammalati, a frotte si dirigono spontaneamente all’infermeria per quadrupedi, un recinto a due passi dal municipio, dal museo e dalla chiesa cattolica, nel centro di Lamu, considerato luogo d’attrazione turistica. Qui le femmine partoriscono e hanno cura dei piccoli d’una bellezza straordinaria.
Sull’isola ci sono solo tre veicoli a motore, due vecchi fuoristrada e una berlina, ma ci si domanda e che possano servire. I vicoli della città vecchia sono così angusti che a mala pena possono incrociare un uomo magro e un’asina pregna. Fuori città ci sono solo mulattiere polverose che si perdono nel bush e la stradina costiera è impraticabile durante le alte maree. Dopo l’equinozio, alla fine di marzo, il clima subisce un impercettibile cambiamento. La calura aumenta per effetto dell’umidità e ad oriente sull’oceano si notano spesso masse di nubi grigiastre che non riescono a raggiungere il continente. Si annuncia la stagione delle piogge, breve e malefica, perché crea molte difficoltà per gli spostamenti stradali ed aerei, mentre aumenta molto il rischio di contrarre la malaria. Mentre da noi s’affaccia con i suoi colori e i suoi capricci la splendida primavera, nell’Africa poco a sud dell’Equatore, si presenta un accenno d’autunno, ma soltanto per quanto riguarda le precipitazioni. Il caldo perdura, anzi diventa insopportabile, rende pigri e indolenti, fa invecchiare precocemente e toglie la cognizione del tempo che passa. Come vocianti uccelli migratori in partenza per le regioni settentrionali del mondo, i turisti si raggruppano sotto le stuoie polverose del piccolo aeroporto di Manda, disputandosi animatamente i pochi posti disponibili sui velivoli che permettono di raggiungere le coincidenze per l’Europa. L’aria al suolo è immobile, greve e polverosa, ma in quota s’incontrano correnti fredde, vuoti d’aria e banchi di nubi. E’ proprio giunta l’ora di tornare a casa. In Africa si va volentieri, ma dopo un certo tempo s’avverte imperiosa la nostalgia per le nostre quattro stagioni ricche di stimoli e, probabilmente, causa non ultima di tante e gravi differenze culturali e di sviluppo.

                                                                                              Umberto Mantaut

 

 

 

 

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