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Il Pass che passione

Per età, esperienza e ricordi torno oggi ai “bei” tempi andati, quando l’Europa era divisa in due parti solo apparentemente diverse. A est tutti i paesi erano dominati da Mosca, sotto un regime ferreo, protetto da una cortina di “ferro”, in effetti abbastanza arrugginita, poiché con passaporti, visti e permessi in sostanza non era poi tanto difficile varcarla. L’occidente che si definiva libero era pieno di orrende sbarre doganali di frontiera. Per andare in auto dall’Italia alla Norvegia bisognava sopportare almeno cinque lunghe file in frontiere controllate da gendarmi. Come un incubo rammento uno sbarco da un traghetto nel porto di Oslo: la macchina con targa di Roma ispezionata pezzo per pezzo, con cani antidroga, foto di passaporti, bolli di circolazione e carta assicurativa e una lunga discussione con i poliziotti che pretendevano di vedere le prove delle prenotazioni alberghiere. Non capivano che il turista “fai da te” si ferma verso sera nell’ultima località visitata, cerca una stanza d’albergo libera, pernotta e riparte, se non si suicida, come va di moda in quei paradisi socialisti scandinavi.  In URSS i cittadini dovevano esibire un passaporto interno per andare da una città all’altra dell’immenso paese. Nessuno appariva turbato. Gli aeroporti erano affollati sempre come le nostre stazioni a ferragosto. Nella Atene dei colonnelli rischiai l’arresto. Non avevo capito che dopo le otto di sera la scorciatoia attraverso un giardino pubblico per rientrare in hotel era proibita. Mi salvò nel commissariato un’impiegata gentile. Convinse gli sbirri e rilasciarmi, dicendomi che avevo rischiato di essere confuso con un sovversivo rosso ellenico di quelli che di notte nascondevano i volantini contro il regime nei cespugli dei parchi. Al Checkpoint Charlie sulla Friedrichstrasse fra le due Berlino un vopos mi trattenne tre ore perché nella foto del passaporto i capelli erano più corti del reale. Si convinse quando gli proposi di chiamare un barbiere per accorciarmeli. Fra Cecoslovacchia e Ungheria alla frontiera di Komàrno piantarono una grana per un foglio del Messaggero di Roma che avvolgeva nel bagagliaio un vecchio paio di scarpe. Passavo per un contrabbandiere di sporca stampa capitalistica nel paradiso del proletariato. Non parliamo di ciò che tuttora succede alle frontiere in altri continenti. In alcuni paesi non puoi andare se non sei vaccinato contro la febbre gialla.  Se fai scalo a Gedda e porti al collo la catenina d’oro con la croce ti arrestano e se sei donna devi velarti. In Nigeria devi dimostrare di avere il biglietto di ritorno con prenotazione certa, forse temono che finiresti a battere il marciapiede sulle strade di Lagos. In Pakistan non entri se non hai l’invito di un residente, in Israele si arrabbiano se chiedi che evitino di metterti il timbro d’ingresso sul passaporto, che poi devi gettar via, poiché non ti ammettono più in nessun paese musulmano. Lunghe file in Kenya per pagare la tassa d’ingresso e a Buenos Aires per la tassa d’imbarco. Insomma, il mondo è una gabbia di matti piena di sbarre. Tornando alla vecchia, anzi decrepita Europa, dopo il Trattato di Shengen e il crollo del muro di Berlino, ci eravamo illusi di essere un continente di uomini liberi dall’Atlantico agli Urali. Nei viaggi internazionali ci portavamo ancora dietro i documenti, più per motivi di identità che per necessità di controlli sostanzialmente inesistenti da parte del personale di frontiera. E’ bastato un microscopico virus, più piccolo di un granello di sabbia, per bloccare il lubrificato ingranaggio. Una catastrofe! Tutti tappati in casa, anzi no. Gli svedesi hanno sfidato il rischio continuando a circolare insieme al virus e, ironia della sorte, forse perché abituati al freddo e ai raffreddori, in fondo la percentuale dei defunti è stata uguale a quella dei paesi severi. Ora, con le vaccinazioni si riapre uno spiraglio di libertà, tipo Russia di Stalin. Ci vuole il “pass” sanitario per andare da Roma a Firenze, dallo Stato pontificio al Granducato di Toscana. La “gente” che evidentemente non ha vissuto le esperienze su descritte, appare sconvolta, ma è auspicabile che si adatti e rifletta. Dopo tanti sacrifici, errori e vere e proprie fesserie che hanno caratterizzato l’acme della epidemia, dobbiamo accettare l’idea che almeno le persone ormai immunizzate abbiano via libera per i loro movimenti. Ci mette lo zampino la solita burocrazia e qui comincia la commedia dal titolo “il pass che passione”. Ursula a Bruxelles che non ha capito nulla di contratti, non ha idea di cosa sia un documento e si stringe in uno dei suoi graziosi corpetti. La cosa più semplice sarebbe un cartellino plastificato come la rosea patente di guida, magari colorandolo di giallo, tipo epatite virale. Ma bisogna pensarci su. In Italia, per la verità, dopo la seconda punturina rilasciano un foglio che dichiara che il “soggetto” è stato completamente vaccinato, ma in calce si legge che si tratta di un pezzo di carta senza valore di “certificazione”. Se fosse a doppio velo si avrebbe il vantaggio di un risparmio sulla carta igienica. Per Diana, occorre una apposita commissione con venti esperti, pagati 800 euro al dì, per deliberare circa il “pass”. Finiranno con scegliere la autocertificazione. Un altro per Diana! Siamo un popolo di santi, con un solo Pinocchio che era un fantoccio di fantasia. Comunque, tornando a un ipotetico spostamento in auto fra Roma e Firenze, considerato che l’autostrada passa per un tratto in Umbria, occorrono almeno tre sbarre di frontiera con vigili addestrati a scoprire  “los mentirosos” solo a guardarli. I mascalzoni saranno internati e sottoposti al siero della verità in apposita struttura, tipo lager, appaltata ad amici dei ministri per dieci milioni di euro, nelle campagne di Fabro-Ficulle. Finita la stagione delle primule, il sinistro capannone sarà decorato con fiammanti papaveri. Terzo per Diana! La Toscana è pur sempre una superstite regione rossa non per covid ma per convinzione. A questo punto bisogna ridere, perché  piangendo gli occhi si possono iniettare di sangue.

Umberto Mantaut

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