Quattordici ore di scossoni per percorrere 350 km sono la giusta punizione per chi ha voluto violare i segreti del misterioso mondo degli africani. Da Kafountine a Dakar basterebbero quattro ore scarse su strade moderne, ma bisogna tener conto del fondo sconnesso, delle frontiere insensate del Gambia, del traghetto sul fiume e dell’autista, mandingo musulmano, con due mogli al seguito, una più bella dell’altra che lo vezzeggiano a turno, invitandolo ad appartarsi per “riposare” durante le tappe. Per pranzo tappa a Saly, la Rimini del Senegal con i suoi moderni hotel, le piscine e i mercatini di souvenir. Poi si visita l’Isoletta delle Conchiglie, quasi un atollo creatosi nei secoli per l’accumulo dei gusci d’ostriche ed altri molluschi, frutto dell’attività principale dei pescatori cattolici Serér. Il calvario termina a Dakar, spiaggia di N’gor, nel tetro albergo Diarama, considerato di cinque stelle, ma con l’unico pregio d’essere vicino all’aeroporto di Yopf, quindi a sei ore dall’Europa. Dakar si è sviluppata a macchia d’olio fino a raggiungere i due milioni d’abitanti. Ha grandi arterie, grattacieli, uno stadio enorme, banali blocchi moderni che fungono da palazzi governativi, una “corniche” lungo il mare che ha di bello solo la scogliera. La visita della capitale richiede assai poco tempo, le periferie sono orribili. Se il Senegal fosse solo Dakar non varrebbe di certo la pena di affrontare il viaggio, anche se, vista dall’alto, la città dimostri di godere di un’invidiabile posizione geografica. Nell’insenatura si è sviluppato il porto più importante di tutta l’Africa occidentale, nel punto strategico per il balzo verso l’America del sud.
Il promontorio di Capo Verde, come un gigantesco uncino si protende nell’oceano cercando di ghermire l’isola di Gorée che si trova al largo. Conviene imbarcarsi alla svelta con la prua diretta all’isola degli schiavi. Del resto questo è lo scopo del viaggio da parte di chi va a caccia dei siti protetti dall’UNESCO. Occorre ricordare che la Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, istituita a Parigi 4 novembre 1946, non si preoccupa solo di preservare monumenti o reperti famosi, dalla Torre di Pisa all’Esercito di terracotta di Xian, intere città d’arte come la nostra Firenze, siti naturali stupendi come le Cascate del Niagara americane o la Junfrau in Svizzera, ma, specie ultimamente, prende in considerazione altri aspetti collegabili alla umanità nel bene e nel male. Infatti, si proteggono siti di archeologia industriale, piatti famosi come la pizza napoletana e luoghi di memoria tragica. Ecco, appunto la ragione dell’intervento dell’Unesco a protezione dell’isoletta di Gorée, in Senegal. Per quattro secoli, con la complicità di elementi locali e sensali crudeli, le grandi potenze, ma anche paesi poco importanti come la Mauritania, che ha abolito la schiavitù per ultima nel 1981, ma dove ancora era clandestina nel 2007, dall’isola di Gorée sono partiti milioni d’uomini, trasformati in merce di scambio. A tutti, di tutte le razze e le culture, compresi i cosiddetti buoni cristiani, facevano comodo la manodopera gratuita per coltivare le terre, i domestici da trattare come animali, le donne da sfruttare nel più turpe dei modi, i bimbi da allevare come vitelli per trarne profitto in futuri lucrosi baratti. Sull’isola si deve visitare la casa-prigione degli schiavi. Serve per spiegarci il perché di certi nostri complessi di colpa nei confronti degli africani e dei complessi d’inferiorità di questi ultimi verso di noi, che talvolta si trasformano in forme di razzismo alla rovescia.
Gorée è paragonabile a Dacau – dice l’anziano custode della prigione – con la differenza che l’olocausto degli ebrei è durato pochi anni, mentre qui si parla di alcuni secoli di orrori. Il luogo lascia sgomenti: celle, catene, locali di tortura per i recalcitranti, selezioni umilianti basate sul peso, la statura, il volume dei seni, l’etnia. Gli scarti, i malati e gli elementi troppo ribelli erano avviati verso una porticina sul mare, dove ancora oggi s’aggirano gli squali in attesa di prede. Forse, il custode esagera un poco. Lo schiavo, inteso come merce d’un certo valore, non avrebbe dovuto arrivare sul mercato in condizioni pietose, con il rischio di venderlo deprezzato. Inoltre, i padroni, volendo sfruttare la forza dello schiavo uomo o la bellezza della schiava donna dovevano averne una certa cura. Infatti, nel racconto si notano alcune contraddizioni. Si narra di belle schiave divenute liberte con ampio potere sul cuore e sul portafoglio del proprietario. Alcuni ex-schiavi africani di Gorée pare che si siano arricchiti facendo a loro volta gli schiavisti o i mediatori nell’orribile mercato. Fa impressione pure il fatto che, ai piani superiori della tremenda prigione, i mercanti avessero alloggi bene arredati e loggia sul mare, dove vivere e gozzovigliare, senza prestare orecchio ai lamenti dei captivi e senza temere le spaventose epidemie originatesi in simili tuguri. Intanto, sulla porta d’ingresso dello strano museo un nuovo gruppo di turisti bianchi e neri, a contatto di gomito e in religioso silenzio, fa la fila per entrare.
Un cartello dice:
Le Peuple Senegalais a su garder l’actuelle Maison des Esclaves afin de rappeler á tout africain qu’une partie de lui-même a transité par ce santuaire.
“Il popolo senegalese ha saputo custodire la casa degli schiavi per ricordare ad ogni africano che una parte di se stesso è transitata per questo santuario”
Umberto Mantaut