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Zampe gallina

Ebrei Russi a Ladispoli

Tendiamo tutti ad avere memoria corta, ma a Ladispoli molti ricorderanno il tempo in cui la città ospitava centinaia di famiglie di ebrei russi in transito. Infatti, non erano immigrati o profughi, semplicemente persone temporaneamente in Italia in attesa di trasferirsi prevalentemente in America. Le loro efficienti organizzazioni provvedevano alle spese per alloggio, modesto sostentamento e soprattutto per la frequentazione dei corsi intensivi di inglese a Roma per preparare queste persone alle nuove sistemazioni oltreoceano. Sui treni dei pendolari si sentiva parlare prevalentemente russo o inglese, ma questi ospiti erano piuttosto schivi, sicché non era facile comunicare con loro. Personalmente ricordo una famiglia di tre persone più socievoli. La signora era pediatra, il marito ingegnere e il bimbo di sette anni impressionava per la magrezza e la timidezza. Con loro compresi molte cose. Alla domanda: “perché non volete andare in Israele che è la vostra terra promessa?” rispondevano che uscendo dalla Russia comunista non desideravano ritrovarsi in un paese dove in fondo vige una specie di socialismo reale. Per loro il kibbutz non era altro che una forma di kolchoz. Compresi cosa volessero significare dalla mia personale esperienza in unkibbutz di En Gev, sulle rive del grande lago di Tiberiade, dove centinaia di bovine olandesi ruminano ben pasciute, i palmizi offrono scuri datteri gonfi e succosi, gli orti e i frutteti industriali, di una razionalità meticolosa, alimentano le esportazioni. La sosta nel kibbutz è importante per un primo contatto con l’orgogliosa società israeliana. Nella fattoria sociale si realizza una sorta di cooperativa integrale, dove il movente del collettivismo non è la fallimentare ideologia marxista, bensì la fede comune e l’esigenza di difendere tutti insieme la terra promessa riconquistata. Nel kibbutz di En Gev si pratica ciò che si potrebbe chiamare un agriturismo di massa, con tanto di ristorante per centinaia di ospiti, shopping centre e noleggio di natanti nel piccolo porto sul lago. A lavoratori ed ospiti è quasi imposta una severa sobrietà. Ai pasti, al momento della frutta si serviva a tutti un enorme piatto bianco con al centro un unico, sia pure succoso dattero, forse esempio di una proverbiale avarizia. A proposito di cibo, la piccola famiglia tornava in treno ogni sera con una busta di plastica contente zampe di pollo e cipolle, base per i loro pasti, sicché decisi più volte di invitarli a casa a cena. Andavo a prenderli al loro monolocale modesto in affitto dalle parti di piazza Domitilla. Erano allibiti sapendo che un modesto dipendente statale italiano potesse permettersi una Ford e un villino sul mare con mutuo pari a un quarto dello stipendio mensile. La prima sera, giunti alla frutta, il piccolo allungò una mano, prese una banana e se la ficcò in bocca con tutta la buccia. La madre scoppiò a piangere ammettendo che in Russia non aveva mai potuto offrire al bimbo un frutto tropicale. Comunque la descrizione dei loro stenti in Unione Sovietica sconfinavano alquanto nella “mania” di persecuzione. Sempre da mie personali esperienze, da Leningrado a Budapest, passando per Riga e Praga, tutte splendide città oppresse dal regime, non erano solo gli ebrei a mangiare poco e male, ma tutti gli onesti “compagni” lavoratori di ogni razza e religione, quella poi proibita per tutti. Venne un bel giorno per i miei amici ebrei la sospirata busta con i permessi per partire, i biglietti aerei e i contratti di lavoro adeguati alle loro professionalità. In partenza per Filadelfia a Fiumicino ci furono lacrime e promesse. Ti manderemo subito notizie, indirizzo e invito. Sparirono, direi “ovviamente”, poiché, tornando a casa in autostrada ancora commosso mi resi conto che dalle loro bocche non era uscito un “grazie” né un thank you e neppure spasibo, pronuncia spasiba. La cosa a me sembra normale. Ho avuto un fratello disabile. Gli sfortunati e i perseguitati, persone singole o interi popoli, ritengono che tutto sia loro dovuto.

                                                                                                          Umberto Mantaut  

 

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