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Difficile capire gli inglesi

Un calcio di rigore fortunato sembra avere spostato l’ombelico del mondo da Piccadilly Circus alla Fontana di Trevi e siamo tutti ben contenti, anche troppo visti gli assembramenti a stretto contatto di ombelichi saltellanti che potrebbero significare nuovi contagi e guai. Inoltre, un popolo di esterofili, che ogni tre parole ne infila una in inglese mal pronunciato e spesso senza saperne l’esatto significato, sembra gioire nel poter accusare i compassati britannici di essere, forse, più maleducati di noi, perdenti, scorretti a livello diplomatico e razzisti, persino nei confronti dei loro stessi campioni dalla pelle scura, colpevoli di un tiro in porta poco centrato. Ci scordiamo che tutto il mondo è paese e l’Inghilterra è un paese come gli altri con pregi e difetti, ma gli inglesi hanno caratteri, abitudini e sentimenti che si possono capire soltanto frequentandoli e facendo qualche sforzo per accettare il loro modo di essere. Per divertirci in queste serate afose, assolutamente italiche e pallonare, si riportano tre diari ameni di natura personale, sperando di destare curiosità e magari rinnovato rispetto per un popolo, che si è volutamente allontanato dall’Europa, ma fa parte del nostro mondo e della nostra cultura.

I’m lonely as can be
La strenua quanto esagerata difesa della privacy trasforma gli inglesi in un popolo poco comunicativo. Rompere il ghiaccio o attaccar bottone è assai difficile. Anche dopo regolari e formali presentazioni è sempre piuttosto imbarazzante iniziare una conversazione. Gli inglesi tendono a non fare domande per paura di apparire indiscreti e non gradiscono parlare di loro stessi per non essere giudicati invadenti. Ben presto si scopre che l’unico argomento universalmente gradito è quello riguardante il tempo meteorologico (weather), da non confondersi con quella mobile continuità degli istanti in cui s’identificano le vicende umane e naturali. Per questo si usa la parola “time”. Il condominio di Brixton Hill Cour nei giorni di pioggia sembra popolato solo da gatti dal cattivo carattere. Quello nero della mia vicina ha risposto a graffi e morsi ad un timido tentativo di carezza. Nei giorni che non sono “rainy”, assai rari a Londra, sui pianerottoli, alle finestre e nel piccolo giardino condominiale s’affacciano pensionati diffidenti nei confronti degli estranei, ma molto enfatici fra loro nell’aggettivare la giornata: windy, ventosa, cloudy, nuvolosa, oppure sunny, piena di sole, che in estate determina poi incredibili lamentele sul caldo, del quale a Londra non hanno evidentemente la più pallida idea. Una mattina sento che la mia vicina fa commenti sui piccioni del quartiere. In maniera assai poco britannica i pennuti accettano il pane dalle mani di uno straniero. Da lei, che cerca sempre di offrire briciole e persino pezzi di torta, i piccioni fuggono spaventati. Allora, mi permetto di spiegarle che forse lei si sporge troppo fuori della finestra. I pennuti s’avvicinano se vedono il pane sul davanzale, poi prendono confidenza e l’accettano anche dalle mani a patto che si rimanga fermi e all’interno della stanza. La povera donna mi racconta: “Io sono paralitica. Nei giorni di sole, viene la vicina a mettermi in finestra, appoggiata al davanzale, così mi posso divertire a vedere cosa succede nel cortile. Al tramonto mi ritirano in casa e mi aiutano a coricarmi”. Con il passare dei giorni, e migliorando la mia comprensione della lingua, la pensionata mi racconta tutto della sua vita. E’ stata sposata con un funzionario statale distaccato in India. In quel lontano paese ha vissuto a lungo. Ha due figli. Il maschio è rimasto in Asia, la figlia ha sposato un ricco e vive nella parte settentrionale di Londra, ma non viene mai, perché ai benestanti non piacciono i quartieri poveri a sud del Tamigi. La vecchia mi confessa: “ I’m lonely as can be” (Sono sola come di più non si potrebbe essere!). Avendo acquistato un po’ di confidenza, mi sono azzardato a criticare il comportamento della figlia benestante e poco premurosa nei confronti della madre inferma. La signora ha immediatamente raffreddato i rapporti. “No”, mi ha detto piuttosto infastidita, “ Lei viene a trovarmi con i nipotini tutti i Natali, solo l’anno scorso non hanno potuto, perché c’era brutto tempo, ma mi hanno telefonato….e ho passato comunque un bellissimo Natale”. In materia di freddezza, evidentemente, vale il proverbio: “Like mother, like daughter” (tale madre, tale figlia).

I’ve never been to me
Nei rari pomeriggi caldi di Londra, gli allievi del Sels College possono approfittare di ingressi convenzionati alla piscina dell’YMCA, un impianto piuttosto squallido, con l’acqua grigiastra, in un cortile all’ombra dei grattacieli di Hight Holborn. Ci vengono spesso Angela, una bella ragazza di Rio, e Carlos, un boliviano stravagante, sicché, lontano dalle orecchie indignate di Su, nostra insegnante, possiamo abbandonare per un po’ l’inglese e conversare in castigliano. Sentendoci parlare, un giorno, si è avvicinato un certo Peter, un tipo dalla rispettabile abbronzatura, frutto d’una vacanza a Mallorca, ma per il resto assolutamente britannico. Peter si è presentato come filo mediterraneo, desideroso d’imparare lo spagnolo, con il sogno d’abbandonare al più presto la brumosa Albione. Dopo qualche spaghettata nella mia casa di Brixton Hill con i compagni di corso e alcuni altri amici inglesi, Peter mi ha invitato a trascorrere una giornata al mare a Brighton. L’appuntamento domenicale è alle otto sulla banchina della Victoria Station, riservata ai treni diretti alla spiagge del sud. I londinesi partono a frotte con le attrezzature balneari come se dovessero recarsi al tropico, sebbene in pieno luglio i week end siano alquanto freddini. Peter arriva trafelato, sovrastando la folla con la sua notevole statura, unico elemento imponente della sua personalità fragile e gentile. Ha voluto a tutti i costi pagare i biglietti per entrambi e porta un sacco di golosità da sgranocchiare durante il breve viaggio. Stare con lui è vantaggioso, volendo migliorare l’inglese. Parla continuamente, ma sembra fare uno sforzo generoso per scegliere frasi facili e comprensibili. In realtà è in ansia per farsi capire. Non sono chiari i motivi del suo malcontento. Nel racconto si mescolano problemi di lavoro, di famiglia, di incomunicabilità con gli “inglesi”, con dettagli che lui sottolinea come negativi, ma che non sembrano molto importanti. La sua fermata di metrò si chiama Angel, sulla Northern Line, che secondo lui è la più squallida di Londra, ma vive a Islington, che è un bel quartiere. Nel suo pub preferito, The Albion, in Thornhill Road, tutti lo conoscono, ma nessuno gli rivolge la parola. Alcuni problemi s’aggrovigliano talmente che viene il sospetto che si tratti di miti. A Brighton il sole stenta a farsi largo fra le greggi di nubi che occupano il cielo in tutte le direzioni. Tira un ventaccio gelido, ma i bagnanti sembrano felici sulla sabbia. Qualcuno si tuffa nelle onde livide. L’umore di Peter volge al bello. Pretende di fare in poche ore tutte le cose piacevoli che offre la più famosa località balneare inglese, caratterizzata dal fantastico Royal Pavillon, di stile orientale, e dalla King’s Road, l’immenso lungomare dai sontuosi palazzi. In barca si va al largo doppiando il Pier, vera e propria penisola di cemento armato, costruita per scopi panoramici e per ospitare attrazioni turistiche, che secondo Peter documentano la stupidità inglese, ma poi lui stesso pretende di “conservare” l’abbronzatura in scomodissime sedie sdraio dalla tela umida e fredda. Si prende il trenino turistico che percorre tutta la litoranea battuta dal vento. Si mangia una pizza che un napoletano definirebbe suola da scarpe. Si prende un autobus a due piani, verde, con il deck superiore scoperto, sicché si raggiunge il grazioso sobborgo di Rottingdean, simile a un villaggio olandese, con i primi sintomi dell’assideramento. In un pub di Rottingdean è possibile prendere finalmente una tazza di tè bollente, gustando certi scones mielosi che la proprietaria scozzese del locale assicura aver fatto con le sue “mani nude” (with my bare hands), espressione che lascia alquanto perplessi, finché non si chiarisce trattarsi di una delle innumerevoli frasi idiomatiche dell’incredibile lingua inglese. Nel pomeriggio, Peter propone ginnastica presso il club sportivo Brigh’N Beautiful di St. Margaret’s Place, un’altra passeggiata sul gelido lungomare e un giro di shopping nel caratteristico rione delle lanes, vicoli pieni di graziosi negozi dove trionfa il gusto inglese per il superfluo. Continuando a sviluppare la sua autobiografia di trentenne dalle innumerevoli esperienze, Peter, perfettamente orientato nel dedalo dei vicoli della vecchia città balneare, racconta di essere stato in mille posti, dalla Costa Azzurra alla California, dalle isole greche alla Georgia, ma di non avere mai trovato un luogo dove rifugiarsi lontano dalla odiata patria. Ad un tratto, entrato in un negozio di dischi compra un’incisione della famosa cantante Charlene e me lo regala a patto che l’ascolti solo al rientro in Italia. Il titolo della canzone è emblematico: “I’ve never been to me” (Non sono stato mai in compagnia di me stesso!).

I saw three rainbows
Leggendo regolarmente il mensile “Reader’s Digest”, si scopre che quasi sempre dalle parti di pagina 60 c’è una rubrica dal titolo “Life’s Like That”, così è la vita. Si tratta di una raccolta di lettere dei lettori che raccontano certi loro aneddoti curiosi, assai rappresentativi del famoso sense of humour britannico. Per noi mediterranei è molto difficile penetrare nello spirito inglese. Nelle riunioni private e pubbliche inglesi s’odono spesso risate omeriche in seguito a battute o di fronte a situazioni che ci farebbero al limite solo sorridere. Non è solo una difficoltà legata a certe sfumature linguistiche. Loro ridono di cuore per cose che ci sfuggono, mentre le nostre storielle non li divertono, forse perché a noi piacciono le barzellette salaci e troviamo a volte assai comiche situazioni truculente. Gli inglesi si scandalizzano per poco e prendono troppo sul serio le vicende della vita. Forse si tratta anche di questioni di palato. In Inghilterra, se si escludono certi ristoranti italiani dove si mangia male e si spende tanto, non è possibile gustare un buon piatto “alla carbonara”, ma è diffuso l’incredibile “assiette anglaise”, chissà perché citato alla francese: una fettina di salame untuoso, una foglia pallida di lattuga, un pomodorino maturato in serra e rosso per la vergogna e una terribile fetta di formaggio del Leicestershire, con l’aspetto e il profumo del sapone da bucato. L’aggettivo per tutte le cose gustose, belle, piacevoli, graziose, attraenti, incantevoli, divertenti, riuscite, ottime, eccellenti e perfette è invariabilmente “lovely”, pronunciato con molta enfasi “lovvli” e accompagnato, specie da parte di vedove e nubili, da una serie di esclamazioni monosillabiche, che condiscono la conversazione di un allegro squittio. Siam dunque in pieno agosto, nella villa degli affabili John e Grace, a Duston, periferia di Northampton. Il padrone di casa è un noto medico, padre di una mia amica. Alla prima presentazione disse ridendo: “ conosco bene Torino, dove sei nato, son venuto a bombardarla durante la guerra, ero addetto alla individuazione dei bersagli sugli aerei della Raf”. La giornata è tipicamente inglese. Piove fin dalle prime luci dell’alba, fa freddo, ma ci sono i termosifoni accesi e un bel fuoco nel caminetto. In compenso il giardino è verdissimo con belle petunie gocciolanti. Per curare il raffreddore si tracannano tazze di tè bollente e pasticche d’aspirina inglese, che sembra non far male allo stomaco. A pranzo, l’immancabile “kidney pie”, crostata di rognone. Ci si domanda sempre quanti reni abbiano le vacche inglesi e dove finiscano gli altri tagli di carne. Il kiney pie è gustoso, specie se cucinato da una brava madre di famiglia, ma dopo una settimana viene la nostalgia di un buon brasato al barolo. Nel pomeriggio il tempo cambia leggermente, la pioggerella si trasforma in una serie variata di scrosci, con qualche colpo di tuono, senza lampi, e si alza il vento dell’ovest che spinge le perturbazioni atlantiche sulle isole britanniche, lasciando pochissimi spazi alle schiarite. Arriva Nora, un’altra mia amica che il bel tempo e il caldo li conosce bene, essendo stata ospite in Italia e avendo l’abitudine di passare le vacanze in Tasmania. Suona delicatamente il campanello, lascia l’ombrello fuori della porta, si scusa per le scarpe bagnate ed esclama: “Lovely day today, I saw three rainbows!” (Che bella giornata oggi, ho visto ben tre arcobaleni!).

                                                                                              Umberto Mantaut

 

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