Ci ostiniamo a chiamarli “nostri cugini d’oltralpe”, ma loro non sembrano davvero gradire la parentela, oppure, appena possono, si comportano da parenti serpenti. Sono afflitti da un complesso di superiorità che chiamano “grandeur”, che un tempo poteva essere logico e confuso con la grandezza territoriale di un impero coloniale ormai perduto e ridotto a isolette sparse nei vari oceani, mantenendo solo una specie di prepotente sovranità monetaria su paesi africani che stranamente la sopportano ancora. Senza dubbi la Francia in Europa è un faro di civiltà, ma i “nostri” meriti non li riconosce. Del resto la cosa più bella che esibiscono, esattamente uno dei loro simboli, è la Gioconda di Leonardo. Sebbene morto ad Amboise è un genio italiano nato a Vinci. Osservandola al Louvre si nota che ha solo un mezzo sorriso ambiguo e magari sogna di tornarsene a casa. Capire i francesi non è cosa facile, discendono dai Galli, forse un po’ meno duri di altri barbari, parlano una lingua neolatina e occorre loro ricordare che quando Roma era caput mundi su un isolotto della Senna esisteva solo un accampamento di mezzi selvaggi detti Parisii, in una palude chiamata Lutetia, leggi Lutezia, solo molto più tardi trasformatasi nella grande Paris. Appunto a Parigi e in altre parti della Francia bisogna soggiornare a lungo, essendo anche un mezzosangue francese, per potersi permettere un giudizio comunque non esauriente sui nostri scomodi vicini.
Clochard – Inverno ‘58
Pont de Sèvres-Billancourt-Marcel Sembat-Porte de St Cloud-Exelmans, il metrò corre nelle viscere di Parigi. La linea 9 attraversa tutto il centro e raggiunge dopo decine di chilometri e trentasei stazioni il capolinea opposto alla Mairie de Montreuil. E’ una delle ultime corse notturne, poi bisognerà aspettare l’alba per poter tornare indietro. I vagoncini rossi sferragliano nei tunnel, i freni stridono nelle stazioni rivestite di mattonelle bianche e blu come bagni pubblici, le porte si chiudono con un lamentoso segnale acustico, si respira l’aria viziata della sotterranea che ha odori d’attriti ferrosi, sudori umani e umidità di fogna, ma fanno parte degli odori e dei profumi di Parigi con il loro fascino perverso. Quando scappo dal collegio da solo, scendo a Franklin D. Roosevelt, perché amo uscire all’aperto proprio al centro dei Champs Élisées a mezzanotte. Sull’enorme viale un torrente di luci gialle fluisce dall’Arco di Trionfo verso la Concorde, un fiume di fanalini rossi corre in direzione opposta. Mettendosi pericolosamente al centro della via si prova un’emozione da capogiro, ma forse è solo l’effetto dell’inalazione dei gas di scarico. Sui larghi marciapiedi la folla si muove disinvolta nonostante il freddo. Entra ed esce dai locali affollati e pieni di luci e musica. Gli alberi spogli e biancheggianti di brina sono già drappeggiati da festoni d’argento e milioni di lampadine per le luminarie natalizie. Risplendono le vetrine dei negozi aperti anche di notte e le insegne dei cinema e dei grandi alberghi, ma la ville lumière ha ben altre attrazioni. Bisogna arrivare all’Étoile. Sotto l’Arco di Trionfo illuminato a giorno s’incrociano a grande profondità quattro linee di metropolitana e si deve decidere come passare la notte. C’è la scelta mondana andando verso Pigalle o quella romantica scegliendo Les Halles, La Cité, il quartiere latino e i lungosenna. La linea 2 raggiunge Nation passando per Barbés Rochechouart, ma la maggior parte dei passeggeri scende alle fermate del Boulevard de Clichy. Infatti, fra la Place Blanche dove rosseggiano le pale del Moulin Rouge e la Place Pigalle si scatena la Parigi permissiva degli spettacoli arditi e della pornografia, mentre dalla Place d’Anvers si può salire a Montmartre fra i pittori che dipingono all’aperto nella Place du Tertre e i mille bistrò dei vicoli della vie de bohème. Chi non può permettersi l’ingresso nei costosi locali di spettacolo e non vuole sfidare il vento freddo di Montmartre, sceglie l’ultima corsa della linea Neuilly-Vincennes ed esce nell’umida notte dello Châtelet. Le isole nella Senna e i loro quindici ponti, affollati dai parigini e dai turisti nelle ore diurne, sembrano scenografie notturne vuote. La presenza dei ricchi abitanti dell’Île St-Louis è appena percettibile attraverso le finestre illuminate. Se le tende sono tirate si scorgono lussuosi lampadari di cristallo e soffitti lignei di saloni sontuosi. La Cité, invece è un trionfo di monumenti chiusi che emergono dal fiume sotto l’effetto dei riflettori, Notre Dame e la Sainte Chapelle con le aeree guglie, l’Hotel de Dieu, la Prefettura, la Conciegerie e il Palazzo di Giustizia, severi, quasi lugubri. I ponti e i quais deserti impressionano. Nel silenzio irreale s’avvertono lo sciacquio della Senna sotto le arcate, lo scalpiccio di rari passanti, l’imprecazione di qualche barbone disturbato mentre cerca riposo sotto un ponte, su un vecchio materasso coperto di cartoni. Solo parlando con qualche anziano clochard si può capire come si possa vivere senza un soldo in questa metropoli affascinante ed amarla oppure odiarla senza condizioni. L’uomo è coperto di stracci, ma il volto pallido dalla barba incolta ha sembianze nobili le sue mani affusolate fanno pensare ad un pianista. Infatti narra, o forse inventa, di essere un diseredato di una rispettabile famiglia. Da ragazzo credeva in Dio e avevano deciso per lui un internamento in seminario dal quale era fuggito inorridito dalle immoralità dei preti. Poi, con gli stessi esiti le iscrizioni in vari collegi esclusivi di Grenoble. Di quella esperienza gli rimanevano un francese impeccabile e la passione per la poesia e la musica. Infatti, con il suo cane spelacchiato viveva di monetine ottenute suonando in un corridoio sudicio della sotterranea. Secondo lui, vivendo sotto un ponte si gode di un clima temperato estate e inverno, in un posto privilegiato rispetto alla “laideur” (bruttezza) della metropoli disumana. Cose ben diverse dicono gli studenti stranieri e quelli di provincia che animano il Quartiere Latino, ma loro sanno che purtroppo la parentesi parigina avrà fine con la conclusione degli studi. Di notte sul Boulmiche, così si chiama nel gergo studentesco il mitico Boulevard St-Michel, dove si passeggia fino all’alba, permettendosi al massimo un caffé nero o un’acqua e anice in uno degli innumerevoli piccoli e fumosi bar notturni, noi giovani facciamo progetti e coltiviamo speranze all’ombra della Sorbona.
LIMITROPHE – 1965
La Francia “fisica” è un grande esagono che trasmette un’impressione di compattezza ed anche di relativo isolamento nel contesto del continente europeo. Ciò potrebbe spiegare altresì la tipicità dei francesi, fatta di sciovinismo ed atteggiamenti di sufficienza altezzosa nei confronti dei vicini. Nel 1965 per lavoro ebbi in affitto uno “studio” dalle parti della Bastiglia e mi colpì un giorno il commento della portinaia parigina che, come sempre accade nelle portinerie, amava spettegolare animatamente con tutti, ma evitava d’intrattenersi con gli stranieri. Credendomi magrebino neppure rispondeva al saluto, ma saputo che ero italiano, pure con cognome francese, mi disse: “Avec vous on peut bien causer, car au fond vous êtes un limitrophe.” (Con lei si può chiacchierare, perché in fondo lei è un limitrofo). La Francia è chiusa e protetta su due lati dai mari e su tre dalle catene montuose dei Pirenei, delle Alpi e dei Vosgi. Rimane aperto e incerto il limite settentrionale, dove anche dal punto di vista linguistico si sconfina senza accorgersene nelle terre francofone del Lussemburgo e della Vallonia belga. Parigi è un mondo a parte che in un certo senso esalta ed opprime la Francia. La capitale più bella e importante d’Europa è come una testa troppo grossa rispetto al corpo relativamente piccolo del paese. Gli occhi del mondo, dell’Europa e dell’esterofila Italia sono costantemente puntati su Parigi, su ciò che a Parigi accade e su quanto Parigi propone in tutti i campi, dalla cultura alla moda, dalla politica al savoir-faire e al savoir-vivre. Le altre cento bellissime città francesi, piccoli fari di civiltà provinciale, città d’arte, centri agricoli, sedi universitarie, modelli urbanistici e luoghi ideali per vivere, sono penalizzate e ingiustamente trascurate. In Italia abbiamo climi, ambienti, etnie e dialetti assai diversi da una regione all’altra, sicché la Francia ci sembra piuttosto indifferenziata. Solo conoscendola meglio si scopre tanta varietà anche nella nostra vicina d’oltralpe. Dal sud luminoso si passa alle brume renane, dalle nevi eterne delle Alpi alle alte maree dell’Atlantico. Le genti di Francia non sono affatto simili fra loro per linguaggio e carattere, per usi e costumi. In Provenza e Linguadoca si vive in modo più edonistico e spensierato, parlando un francese cantilenante, radicato nell’antica Occitania. In Alsazia ci si sente un po’ tedeschi e come loro si parla e ci si comporta. Nel Roussillon e in Guascogna, all’accento duro di Catalogna e Spagna s’uniscono comportamenti da “macho” spaccone. I parigini sembrano una razza a parte, se di razza si può parlare in una metropoli cosmopolita e multietnica. Nel nord si lavora sodo, vige la parsimonia, nonostante lo scorrere di fiumi di champagne e il consumo di quintali di ostriche. Bretoni e normanni hanno già abitudini di tipo inglese. Viaggiando nel paese in lungo e in largo si colgono molte altre differenze e si scopre che la vera Francia si nasconde nella provincia con le sue città separate da larghi tratti di dolci campagne poco popolate, sicché ogni centro abitato si chiude gelosamente in se stesso, conservando antichi e nobili stili di vita, preservando i suoi tesori architettonici, tramandando arti e tradizioni, non ultima la straordinaria cucina.
CULTURE – 1990
Tutti sanno, ma pochi ammettono, che l’attuale sfacelo della scuola e della cultura in Europa non deriva da una esalazione della Cloaca Maxima ma è stato il fetido fiato delle “égouts”, le fogne di Parigi ad ammorbare l’aria partendo dal famigerato “maggio ‘68”. Nonostante la forza distruttiva, quasi un quarto di secolo dopo, nella provincia nostrana c’erano molti istituti scolastici d’eccellenza. Nei piccoli centri, snobbati dalle grandi città, esistevano sacche conservatrici ancora sane. Nell’anno scolastico 90-91 un gruppo di ventidue docenti di un Istituto Tecnico di Ladispoli, con la preside lungimirante, si recò per un corso d’aggiornamento a Strasburgo, accolto da funzionari del Consiglio d’Europa, del Parlamento Europeo e da colleghi di scuole superiori francesi. Il sistema scolastico francese sembra un misto di troppo stress nei giorni di scuola e troppe vacanze intermedie, con programmi pesanti, ma i nostri al confronto sono macigni. I professori francesi pare che insegnino con distacco e siano talmente esigenti da rendere la vita impossibile ai poveri ragazzi, privati di ogni sfogo e distrazione. La cosa si nota di più nelle scuole superiori, specie quelle private che operano accanto alle pubbliche con istituti spesso prestigiosi, poiché la Francia conserva un concetto abbastanza elitario e selettivo della cultura. Fino ad una certa età è giusto e molto democratico formare ed informare tutti i giovani cittadini con una scuola media uniforme e non troppo severa, ma poi ai livelli superiori è un altro discorso. Dai periti si pretende una preparazione specifica tecnico-pratica molto buona, però non si bada molto alla “maturità” globale e all’approfondimento culturale generale, il quale, da noi, nonostante le pretese, scade in una penosa genericità. Tra maturi e laureati c’è l’istituto intermedio della laurea corta o biennio post-diploma che sforna tecnici di classe superiore ma non di élite. Per questo ci sono le lauree sulle quali la Francia punta per mantenere alto il suo prestigio e la sua posizione di faro culturale europeo. La sicumera dei docenti francesi potrebbe far parte di un premeditato programma generale: selezionare e temprare i discenti al fine di far affiorare la fascia dei capaci ed assicurare al paese non solo titoli validi ma anche una élite vincente nella concorrenza inevitabile, che caratterizza e stimola il sistema socio-economico europeo occidentale e non solo quello. I nostri cari docenti di manica larga e quelli senza maniche, che non conoscono il significato della parola maieutica, continuino pure, ma poi non ci lamentiamo se dalla posizione già scomoda di sud-europei pastasciuttari scivoleremo verso quella poco invidiabile di nord-africani sottosviluppati. A Strasburgo, con alle spalle una storia travagliata e un’incerta collocazione razziale e linguistica fra il mondo latino e quello sassone, forse, si sta educando un campione significativo di quello che sarà l’Homo aeuropaeus del 2000.
LA MALMAISON – 1996
La Francia, come tutti i paesi del mondo, ha avuto una storia travagliata, con splendori e miserie. Non è facile capire come mai la sua “rivoluzione” sia spacciata come il momento di transizione fra un vecchio ed un nuovo mondo, per tanti aspetti geopolitici, sociali, culturali ed economici. Leggendo fra le righe fu un orrore, anzi un “terrore”, con il risvolto comico che i francesi, tagliatori di nobili teste, per liberarsi dalle presunte ingiustizie della monarchia, si siano poi ritrovati proni in adorazione di un imperatore guerrafondaio, oltretutto corso, quindi italiano, a sua volta con le mani lorde di sangue. Una visita attenta della Malmaison svela le debolezze del grande Napoleone e in un certo senso anche quelle dei suoi sudditi, sempre sedotti dalla “grandeur”. Il nome sinistro non s’addice ad una sobria ed elegante dimora signorile dell’Île de France, costruita nel 1622, ma la Malmaison deve la sua etimologia ad una vecchia storia di briganti e razzie che partivano da questi luoghi ai danni dei contadini. Oggi il sito è idilliaco, ma ispira una certa mestizia. E’ tenuto come un museo assai originale e piuttosto semplice se si pensa alle vicende grandiose e tragiche, ma anche di una modesta quotidianità, che si sono svolte fra quelle pareti. All’esigente Giuseppina Beauharnais il palazzotto piacque un giorno davvero molto, ma il prezzo esorbitante di 330.000 franchi/oro spaventò il potente consorte. Napoleone, nonostante le moine, non ne volle sapere e partì per la campagna d’Egitto negando il consenso all’acquisto. Occorre però sapere che Giuseppina non era tipo da arrendersi. Facile a contrarre debiti, versò una caparra di 30.000 franchi e attese vezzosa il ritorno del suo eroe. Napoleone la prese male e la lite portò la coppia al limite del divorzio, ma alla fine le ”arti” di madame ebbero la meglio. La piccola reggia venne trasformata in luogo appartato di riposo e delizie. Tuttavia, Napoleone promulgò subito una legge che vietava alle mogli di prendere decisioni autonome in materia d’acquisto d’immobili. Come dire, la stalla fu chiusa quando i 330.000 franchi erano già scappati. Giuseppina visse alla Malmaison come s’addice ad una vera diva. Prima regola, mai indossare un abito due volte. Gli splendidi e costosissimi capi d’abbigliamento imperiali venivano elargiti a dame di compagnia ed amiche, le quali, dopo averli indossati a loro volta una sola sera, li portavano a sarte compiacenti esperte in modifiche talmente scaltre da poter rivendere i capi alla distratta Josephine, complice ignara di un vero e proprio riciclaggio ai danni del portafoglio napoleonico. Il divorzio per ragioni di stato non separò la Giuseppina dal cuore dell’imperatore. Lei rimase sempre trepidante nei salotti della Malmaison, attorniata da amiche manutengole e giovanotti un po’ troppo avvenenti per certe interminabili serate d’attesa da occupare con ingenue partite a carte. Alcuni quadri sparsi sulle pareti della casa ritraggono questi momenti notturni e l’ingenuità delle pose non trae in inganno gli osservatori più acuti. Giuseppina sapeva ad arte assecondare le stranezze di Napoleone, facile da menar per il naso come tutti i mariti. Madame fece arredare a mo’ di tende militari certe stanze del palazzo per riprodurre le atmosfere delle riunioni ai margini dei campi di battaglia. Dopo queste commedie, l’insonne imperatore si ritirava nel suo studio-biblioteca, interrompendo la notte di studi strategici con capatine nell’alcova, collegata allo studio da scalette segrete. All’alba una veloce carrozza riportava Napoleone alla severa realtà dei suoi impegni ufficiali a Parigi. I pranzi alla Malmaison erano un altro problema. Napoleone considerava i momenti trascorsi a tavola come vere e proprie perdite di tempo. Ai cuochi s’ordinavano pietanze da potersi consumare in una decina di minuti, come ad un fast-food ante litteram, con gli ospiti costretti per ragioni d’etichetta ad alzarsi quando il padrone di casa, tiranno di Francia e dell’impero, decideva d’essere sazio. L’Imperatore s’abbandonava a piccole civetterie. Alla Malmaison s’ammira oggi una collezione delle sue sciarpe e dei foulard firmati dai grandi stilisti dell’epoca. Su stoffe raffinatissime si pretendevano decorazioni sempre ispirate dalla megalomania imperiale e dalla servile adulazione dei cortigiani. In una sala del palazzo, Napoleone che era di modesta statura è rappresentato come un aitante imperatore, riccamente paludato, su un destriero impennato, “franchissant les Alpes au Grand-Saint-Bernard en 1801”, huile sur toile 2,59×2,21”, capolavoro di Jacques Louis David. La storia, come tutti sanno, non ebbe lieto fine. Giuseppina morì di polmonite alla Malmaison nel 1814. La consolava il fatto di dormire in una stanza sontuosa e in un letto superiore per eleganza a quello dell’imperatrice ufficiale, ma al momento di spirare era sola e piena di debiti nella sua piccola reggia di banlieue. La Malmaison fu anche l’ultima dimora francese di Napoleone dopo Waterloo, prima di consegnarsi al nemico per l’esilio a Sant’Elena. Rientrando a Parigi si viaggia silenziosi, quasi oppressi dopo questa malinconica visita. Napoleone in carrozza sicuramente viaggiava più veloce nei sobborghi occidentali della sua splendida capitale. Oggi si deve affrontare il traffico negli agglomerati residenziali di Reuil e di Nanterre, percorrere l’enorme anello autostradale della Defence all’ombra di grattacieli d’ottanta piani, entrare in città dopo essere passati accanto alla Grande Arche di cemento bianco, scorgendo al fondo dell’Avenue de la Grande Armée l’Arco di Trionfo de l’Etoile, iniziato nel 1806 per volere di Napoleone a gloria delle armate imperiali.
PARIS 1999
Per trascorrere bene una fredda serata parigina non vi è nulla di meglio che recarsi all’Opera. La città è adoratrice della lirica ed ha ispirato non poche composizioni italiane celebri in tutto il mondo, basta ricordare La Bohême di Puccini, ambientata nelle mansarde di Montmartre e La Traviata verdiana nei salotti sontuosi della capitale dissoluta e nelle ville eleganti dell’Île de France. Andiamo dunque a goderci una Traviata, cantata rigorosamente in italiano. Violetta Valery, all’inizio dello straordinario finale del primo atto, capolavoro di gorgheggi, dice una frase quasi recitata: “ …povera donna, sola, abbandonata, in questo popoloso deserto che appellano Parigi… che spero or più? Che far degg’io?”. Si rimane sconcertati. Come si può paragonare ad un deserto una metropoli cosmopolita, piena di risorse, meravigliosa, dove la vita sembra scorrere fra opportunità uniche al mondo ed eventi straordinari? Eppure, a fine millennio, la Rete dei Trasporti Parigini indice un concorso letterario fra i giovani utenti del metrò. Le poesie inviate dai ragazzi, pubblicate sui convogli della sotterranea, sono sottoposte a votazione da parte dei passeggeri. Al vincitore si assicurano premi e un abbonamento gratuito annuale su tutta la rete, oltre alla soddisfazione e alla possibilità di avere altri successi editoriali. Una sera alla fermata del metrò Edgar Quinet, mi ha sorpreso una poesia letta sul treno, forse, la più meritevole di successo. “Il se sentait si seul dans ce désert que parfois il marchait à reculons pour voir quelques traces devant lui” (Si sentiva talmente solo in questo deserto che talvolta camminava all’indietro, pur di vedere qualche orma davanti a sé)”. Nuovamente l’immagine di un deserto in piena Parigi. A pensarci bene, dopo anni di frequentazioni parigine e di viaggi in lungo e in largo in tutte le regioni della nostra cugina d’oltralpe, non posso contare su un amico, non solo a Parigi, ma nell’intera Francia.
Umberto Mantaut