Mezza Italia si è commossa fino alle lacrime di fronte al “buona sera” pronunciato proprio alla buona dal neoeletto Papa argentino, l’altra mezza è rimasta alquanto perplessa. Pochi riflettono sul fatto che l’Argentina, grande sette volte l’Italia con la metà della sua popolazione, è abitata in gran parte da oriundi emigrati da tutte le regioni del nostro paese quando era poverissimo. Una malignità circola in tutti i paesi dell’America latina: “i messicani discendono dagli aztechi, i guatemaltechi dai maya, i peruviani dagli incas, gli argentini discendono dai piroscafi”. Tuttora l’Argentina è uno dei paesi dell’emisfero australe potenzialmente più ricco in termini di risorse naturali, varietà di ambienti e bellezze paesaggistiche. Riesce difficile capire come mai sia perennemente in crisi economica e in confusione politica. Forse, evitando di fare soltanto i turisti, occorre soggiornarvi a lungo, avere contatti approfonditi con le genti del posto e informarsi da chi ha cercato di capire come ragionano o sragionano. Sorge il dubbio che i guai dell’Argentina si debbano in gran parte ai modi di vivere e di votare italiano, trasferiti laggiù dai nostri compaesani emigranti.
BAIRES
In una splendida mattinata di febbraio e in piena estate australe, alzo lo sguardo sulle facciate belle époque di una via centrale, su fino agli abbaini che occhieggiano dagli spioventi grigi dei tetti. Agli angoli degli edifici che chiudono gli isolati, qui chiamati “cuadras”, spiccano le caratteristiche strutture cilindriche finestrate, con cupolette dalle tegole d’ardesia. Con il fragore continuo del traffico intenso di un’immensa capitale l’illusione di trovarsi sui grandi boulevards parigini sarebbe perfetta, ma al pianoterra le insegne in spagnolo dei negozi e il viavai della folla nelle caffetterie aperte giorno e notte riportano di colpo sulla Gran Via di Madrid. Le esigenze dell’età moderna e la mentalità americana, secondo la quale non esistono cose antiche da preservare, ma solo vecchiumi da eliminare, hanno inferto gravi ferite, assai mal cicatrizzate con brutte toppe di vetro e cemento, al tessuto urbano fin de siègle della bella capitale argentina. Il grattacielo più vecchio di Buenos Aires, per qualche tempo anche il più alto dell’America meridionale, risale al 1935. E’ un brutto spezzone di Manhattan, una piramide a gradoni a stento mascherata dalla fioritura rosea e sontuosa dei grandi alberi di “palo borracho” che adornano i giardini della bella Plaza S. Martìn. Poco lontano, uno splendido palazzo lorenese ha una cancellata di ferro battuto e ottone che potrebbe gareggiare con quelle famose della Place Stanislas di Nancy. Nella stessa zona, un altro edificio di stile francese si specchia sulle pareti di cristallo verdazzurro dell’ultramoderna Cancelleria di Stato. Fortunatamente, la maggior parte dei nuovi grattacieli, con qualche esempio pregevole d’architettura d’avanguardia, è stata edificata nelle aree portuali sulle rive del Rio de la Plata. Con un sapiente intervento di recupero ambientale, come nel porto vecchio di Genova, sono stati salvati i docks del Puerto Madero, creando un insieme di locali destinati al commercio, agli svaghi e alle esposizioni d’arte. Nel bacino del vecchio porto, liberato dalle navi da carico, è ormeggiata la bella nave-scuola della Marina Argentina, con gli ottoni lucidi, l’alberatura intatta e le sartie che emettono suoni da strumenti a corda allo spirare incessante del vento del fiume. Andando verso i quartieri più antichi di Buenos Aires, seguendo un’arteria con portici di tipo torinese, si giunge al Barrio de la Boca, che fu per molti anni la Little Italy argentina. Il porto su un piccolo affluente del Rio de la Plata vide sbarcare i nostri emigranti, bisnonni dei 15 milioni d’argentini che vantano origini italiane. Portavano miseri fagotti di tela e cartone, ma molta iniziativa e la volontà di lavorare onestamente. Quasi tutti hanno avuto fortuna dopo la fuga dalle miserie che nei secoli scorsi affratellavano il contadino ligure-piemontese e il bracciante del meridione borbonico. Oggi, il vecchio porto d’arrivo degli italiani è un cimitero di rimorchiatori, carichi di ruggine, semiaffondati nell’acqua putrida del bacino, sul quale s’affacciano condomini popolari e resti di gru, all’ombra di un brutto ponte di ferro. Qui alla Boca i nostri antenati tentarono di riprodurre in contiguità rioni catanesi e borghi della Riviera ligure, sicché si ritrovano facciate barocche di pietra scura con grate e balconi siciliani accanto alle casette dagli intonaci pastello del Tigullio. Di quello scampolo d’Italia d’altri tempi rimane ben poco. Le strade d’aspetto più meridionale, putacaso, decadute miseramente, ospitano la classe meno abbiente della grande Buenos Aires. La parte ligure, ritinteggiata con inverosimili colori violenti, è stata imbalsamata per la gioia dei turisti che accorrono a frotte per provare il brivido di un’ora di tango. Il vicolo Caminito con qualche insulsa bottega di souvenir è invaso da artisti che vendono acquerelli di dubbio gusto con gli stessi colori falsi delle casupole. Si ripete la commediola bohemienne dell’odierna Montmartre o di Piazza Navona, però con sottofondo di milonga. Nelle zone chic della capitale si è preferito un pudding architettonico vittoriano. Pare di essere a Belgravia dalle parti d’Eaton square, ma con enormi alberi di jacaranda dai fiori indaco. Non avendo problemi di spazio la megalopoli argentina è stata pianificata con strade di ampio respiro, secondo una regolare pianta quadrata tagliata obliquamente da vie diagonali. Un’efficiente sotterranea assicura rapidi collegamenti fra il centro e le periferie, integrandosi con linee sopraelevate suburbane e vere e proprie mandrie di autobus di aziende private. Tuttavia, il traffico non è dissimile da quello che affligge ed inquina Roma, Parigi, Madrid o Londra. La vitalità di Baires non conosce tregua neppure nel cuore della notte, quando aumenta la velocità delle migliaia di taxi neri e gialli che contribuiscono al moto perpetuo in virtù delle loro tariffe modestissime. Gli abitanti hanno abitudini iberiche. Si cena tardi, preferibilmente fuori casa, abbondantemente, negli innumerevoli ristoranti dotati di bracieri dove lentamente si griglia l’asado, le cui porzioni metterebbero in difficoltà persino le nostre migliori forchette. Baires è cosmopolita, ma non sembra latino-americana. Manca quasi del tutto la gente di colore. E’ raro incontrare il tipo indio, il criollo e tantomeno il guaranì, spesso ricordato nelle canzoni nostalgiche, dimenticando che le razze indigene sono state sterminate dai conquistatori. Milioni di emigranti sono partiti dai porti della Galizia e dell’Andalusia, da Genova e Napoli, da Amburgo e Brema, dall’Irlanda e dal Libano per dar vita ad una nuova nazione europea nel sud dell’emisfero australe. Una nazione giovane e vivace, potenzialmente assai ricca, ma afflitta dagli errori e dai controsensi tipici dell’immaturità dell’età giovanile. A Baires si parla uno spagnolo sui generis, noto come “porteño”, ma la città è una Babele linguistica. Durante l’attesa per entrare in visita al Teatro Colón, tempio della lirica, ho colto una conversazione fra una signora tedesca, una ragazza francese e un vecchio trasferitosi a Baires dal New Jersey. Quest’ultimo di origini lituane, dopo aver scherzato con le due donne circa le difficoltà del castigliano, ha proposto di continuare in esperanto, lingua nella quale, sorprendentemente, sembravano tutti e tre a proprio agio. Rientrando stanchissimo dalla lunga esplorazione di una parte dell’immensa città, su un treno della linea C del “subte” ho ceduto il posto ad una signora, la quale, dopo aver ringraziato in spagnolo, ha continuato nel fragore della sotterranea a conversare ad alta voce con una sua amica, con mia gran sorpresa, in un piemontese antico con l’accento della provincia di Cuneo. L’italiano è molto amato dagli argentini, ma quasi tutti dichiarano di capirlo abbastanza senza riuscire a parlarlo correntemente. Ciò rappresenta il principale rammarico di quanti vantano origini nostrane. Dopo le recenti crisi politiche ed economiche c’è stata una corsa a farsi riconoscere, con documenti alla mano, l’autentica origine dei cognomi italiani allo scopo di ottenere la doppia nazionalità, il passaporto europeo, con tutti i vantaggi che ciò comporta. La lirica, qui considerata arte sublime, e la musica leggera cantata in italiano mandano in visibilio i nostri cugini porteños, ma ancor più gli abitanti della sconfinata provincia argentina.
DANNO I NUMERI
Centottantasei passi! Forse la guida ha ragione: “La Nueve de Julio es la avenida mas ancha del mundo”. E’ davvero larga 140 metri, con grandissimi marciapiedi, aiuole, dodici corsie per il traffico in entrambe le direzioni di marcia. Eppure, viene la voglia di verificare, contando i passi e rischiando di finire sotto un autobus, perché la pretesa dei porteños di avere tante cose “le più grandi del mondo” un poco stizzisce. Certamente, pensando ai Champs Elisées o all’immensa Changan di Pechino, si è assaliti dal dubbio, ma a nessun visitatore di Parigi o della capitale cinese verrebbe in mente di fare certe misurazioni. Meglio, comunque, non tentare la stessa cosa con la Rivadavia, la via più lunga del mondo. Anch’essa fa parte dei vanti di Baires. Inizia dalla Plaza de Mayo, sulla quale s’affacciano la Cattedrale e la Casa Rosada, si perde nelle periferie più lontane della città, ai margini della Pampa sconfinata, una pianura che da sola è grande quanto l’intera Italia. Le grandi metropoli sono in gara per la conquista di primati vuoti di vero interesse: il grattacielo più alto, il ponte più lungo, la piazza più vasta, la avenida mas ancha, ma tutte sono afflitte dagli stessi problemi di traffico, inquinamento, periferie invivibili e nevrosi collettiva. Tuttavia, a Baires non sembra di vedere la gente correre affannata come a Milano, per produrre e far quattrini. Non c’è neppure l’indolenza fatalistica delle capitali asiatiche, manca quella rassegnazione al sottosviluppo delle città africane e delle altre metropoli latino-americane. Baires è vitalissima, moderna, apparentemente benestante e un poco alienata. Si dice che qui esista la più alta concentrazione mondiale di psicanalisti, psichiatri e psicologi, mentre un porteño su due asserisce di essersi sottoposto ad analisi almeno una volta nella vita. Il problema salta fuori al momento delle presentazioni. Un nuovo conoscente argentino, dopo gli immancabili convenevoli spagnoleschi, affronta l’argomento della propria origine. Spesso i due genitori o i nonni sono di differente nazionalità. Ci si avventura in un esercizio snob, nel senso di senza nobiltà, per evidenziare l’origine ritenuta più prestigiosa. Difficile, comunque, destreggiarsi fra sangue basco o prussiano, siciliano o fiammingo, ebreo o polacco, libanese o veneto. L’eterosi, si sa, è legge di natura. Nell’incrocio si migliora nell’aspetto fisico e nelle prestazioni. Gli argentini sono belli e intelligenti, hanno fornito campioni agli sport e menti elevate alla letteratura mondiale, ma forse qualche elemento negativo affiora manifestandosi attraverso complessi ed ansie, con quel bisogno spasmodico di rivendicare le proprie radici. Gli argentini hanno strani rapporti con molte cose della vita e persino con la morte. A Recoleta c’è il cimitero monumentale di Buenos Aires, con una deliziosa chiesetta coloniale, ma i defunti, forse, non possono riposare in pace. Davanti ai cancelli del camposanto c’è un parco dove ci si raduna per divertirsi e fare acquisti. La strada che costeggia il muro cimiteriale pullula di ritrovi e ristoranti dove si fa festa. Orchestrine improvvisate, all’ombra di immensi alberi tropicali, invitano i passanti a cimentarsi nel tango, danza che evoca nostalgie e dolori, se si bada alle parole delle canzoni, ma trasuda sensualità e trasgressione, se si osservano i movimenti allusivi delle coppie. Nel tango argentino, l’uomo si sforza per apparire macho, sebbene una certa femminilizzazione non abbia risparmiato neppure il tipo gaucho. La donna, se danza in pantaloni, con la bocca sprezzante dell’accanita fumatrice, emancipata come la femminista europea, per lo spazio di un ballo s’improvvisa ancora languida, seducente e bisognosa di un vigoroso braccio virile che la sostenga nel casqué. Sui prati di Recoleta le coppie amoreggiano senza falsi pudori, tanto più che la morte cancella probabilmente i peccati veniali, sicché gli argentini tendono a santificare persino le donnine facili, specie se la carriera termina in maniera fulgida. Evita è considerata un’aspirante agli onori degli altari, peccato che la Chiesa, sicuramente populista, non sia convinta del peronismo. Inoltre, non ci sono prove che la pia abbia compiuto miracoli. I morti ammazzati dagli avversari politici sono catalogati come desaparecidos. Ancora oggi le patetiche madri della Plaza de Mayo reclamano notizie dei cari scomparsi, ben sapendo che fine hanno fatto. Negli anni bui della dittatura si scaraventavano gli oppositori giù da aerei militari nel delta melmoso o nell’oceano antartico popolato da iceberg. Ci sono anche le nonne de Mayo, poiché qualche neonato è stato fatto sparire non si sa come nello stesso periodo. Nelle manifestazioni di queste povere donne si respira un’aria di follia. Ora è tornata la democrazia buonista e, come da noi, i colpevoli si sono confusi fra la folla di exnazisti, exfascisti ed excomunisti, tutti ravveduti dal volto serafico. Eppure, per commettere orrori non basta un dittatore folle che dà ordini. Occorre una base di consenso di milioni di persone e ci vuole manovalanza per il lavoro sporco. Quanti di questi signori che leggono seduti nelle carrozze del subte di Baires hanno sulla coscienza un desaparecido? L’economia argentina è come un mediocre funambolo. Procede oscillando su una fune tesa sul vuoto e ogni tanto si lancia in un maldestro triplo salto mortale, senza rete di protezione. Rischia sempre di rompersi l’osso del collo, però cade in piedi, soltanto con qualche ammaccatura, con l’espressione delusa di chi si aspetta applausi che il mondo non concede. I governi argentini hanno qualcosa di levantino nel sangue, con astuzie da prestigiatore partenopeo. Se dal cilindro salta fuori la magica dollarizzazione, con il cambio di un peso uguale ad un dollaro l’inflazione si blocca, ma i prezzi diventano spaventosi. La classe media è penalizzata, per i poveri è un dramma. Le esportazioni sono impossibili. Si salva solo la carne, rimasta “baratisima”, ma i contorni costano dieci dollari il chilo. Entrando nel nuovo millennio, con l’economia mondiale sempre più globalizzata, fu giocoforza ritornare ad un cambio più ragionevole: tre pesos per un dollaro, quasi quattro per un euro. In definitiva, una svalutazione del 66%, con tremende conseguenze sul risparmio locale, praticamente confiscato, e incapacità di onorare il debito estero, con grave danno d’immagine per il paese e per le tasche dei sottoscrittori stranieri. Per noi che andiamo in Argentina con l’euro, presunta moneta forte, è una pacchia. Un quotidiano che a Roma paghiamo € 1,50 a Baires si trova in edicola a 30 cent. di peso, quindi a 8 cent. di euro, 19 volte di meno. Gli argentini salvano sempre la cultura. Venendo da un’Italia fumettistica, pornofonica e videodipendente, fa impressione vedere a Baires un numero incredibile di librerie. In centro, ogni quattro negozi c’è un bookshop fornitissimo, magari ricavato in un cinema dismesso, a più piani e frequentato da folle di giovani. Nei pressi di cinema e teatri, nonostante la calura estiva, gli spettatori fanno la fila per non perdere le anteprime, qui chiamate estrenos. I teatrini underground fanno sempre il tutto esaurito, anche dopo settimane di repliche. Al Teatro del Pueblo, sulla Diagonal Norte, il commediografo Jorge Accame mette in scena “Venecia”, una tragicommedia geniale, un ponte ideale fra la provincia andina più misera dell’Argentina e la Serenissima. La Gringa, tenutaria di un miserrimo postribolo di Jujuy, ormai cieca e molto malata, sogna di poter rivedere Giacomo, un suo amore veneziano. Le donne della “casa” e i clienti di buon cuore non sanno come pagare il biglietto aereo per l’Italia. Decidono una simulazione. Con poche assi, un ventilatore a mo’ di elica e alcune cassette della frutta per la scaletta, fanno salire la misera a bordo di un comico aereo. Sbarcati a Venezia, sistemano la vecchia su una sedia a dondolo, convincendola che si tratta della gondola. Riproducono lo sciacquio dei canali e il canto dei vogatori. Ecco, allora, il miracolo. La Gringa ha la bianca visione del suo Giacomo. Si alza e gli va incontro. Con lui danza in Piazza San Marco e, quando la musica finisce, spira felice fra le sue braccia. Ai suoi accompagnatori, completamente entrati nella finzione, viene un dubbio atroce: come riportare la salma a Jujuy? Dice Jorge Accame, commentando la propria pièce: “ Giacomo y la Gringa son dos personajes de nuestra tradición teatral. Estuvieron separados durante muchos años y me tienta pensar que yo fragüé el rencuentro de ambos en Venecia. Es una vanidad: seguramente ne me necesitaban.”
EL TIGRE
Dalla Estación Retiro di Buenos Aires parte un treno metropolitano di superficie. Permette di osservare una parte dei grandi quartieri settentrionali e il suburbio della capitale federale, fino al capolinea di Tigre. Nel primo tratto a destra s’intravedono le installazioni portuali e quelle dell’Aeroparque Jorge Newbery, riservato ai voli nazionali con atterraggi e decolli parallelamente all’Avenida Costanera, la litoranea del Rio de la Plata. A sinistra, i lussuosi quartieri di Palermo e Belgrano, irti di moderni grattacieli con appartamenti panoramici costosi, fra il verde di splendidi parchi che ospitano l’orto botanico e lo zoo. Si costeggia l’animatissimo ippodromo di Palermo dove centinaia di fantini s’esercitano nella vivida luce del mattino. Più avanti s’incontra l’altro ippodromo cittadino nel barrio di San Isidro. Dopo la stazione Rivadavia, si sottopassa l’enorme tangenziale e si esce dalla capitale federale entrando nello sconfinato interland, formato da agglomerati di città satelliti senza soluzione di continuità. Rifacendo il medesimo percorso in automobile, sull’autostrada del nord, con opportune deviazioni si può apprezzare lo sviluppo bene organizzato della metropoli. Lontano dal centro, l’altezza degli edifici si riduce e nelle periferie sono diffusissime le abitazioni individuali nel verde. Particolarmente interessante è il sobborgo di Olivos, con la residenza del Presidente della Repubblica e belle case coloniali. In generale, le diverse tipologie edilizie si affiancano e si mescolano, creando una paradossale, armoniosa confusione. Forse, il verde molto diffuso e rispettato contribuisce nel mascherare i contrasti più stridenti e funge da legante fra stili che altrimenti ed altrove sarebbero inaccostabili. Accade che uno chalet di pure linee austriache con abeti nel giardino si affianchi ad un villino bianco, con persiane azzurre, fra i palmizi, copia esatta di una dimora signorile di Cartagine. Case londinesi di mattoni rossi con finestre bianche s’alternano a villette normanne, palazzine liberty, case coloniali, dimore ultramoderne con prati all’inglese, patii andalusi e siepi di bosso all’italiana. Nei pressi delle stazioni della metropolitana o alle uscite autostradali svetta ancora qualche grattacielo o si notano enormi centri commerciali, ma nel suburbio povero compaiono alcune bidonville, come in tutte le grandi città del mondo. Fra San Ferdinando e Tigre, molte case sono su palafitte e la stessa ferrovia è sopraelevata. In questa zona lagunare si verifica il fenomeno dell’acqua alta, quando le maree e i venti dell’est impediscono il regolare deflusso dei grandi fiumi verso l’oceano, distante più di 300 km. Al Tigre, la stazione è quasi in riva al fiume omonimo. A pochi passi c’è un imbarcadero con decine di vaporetti di tipo veneziano e grandi catamarani turistici. Si parte seguendo la corrente del Rio Tigre, affluente del grande Lugán. Una linea di vaporetti devia lungo il Sarmento che si biforca in Rio Capitán e Rio San Antonio. Ecco il delta immenso del Paranà, labirinto di fiumi, canali e lagune in un arcipelago d’isole verdissime, senza strade o ferrovie. Unici mezzi di trasporto i natanti “interisleños”, le lance taxi e le imbarcazioni private. Le isole sono lottizzate senza separazioni rigorose fra le proprietà. Ogni casa su palafitte è arretrata rispetto al canale, dal livello capriccioso a causa di piene e maree. Ai piccoli moli privati basta allungare una mano per far fermare i vaporetti e le barche per i rifornimenti. In tutto il delta del Paranà, le abitazioni “isleñas” hanno una loro particolare lussuosa semplicità. Molto legno, intonaci pastello, verande e terrazze coperte, grandi finestre per godere delle vedute sul fiume e sui boschi. Attraverso i vetri, si notano interni raffinati, poiché è un privilegio dei benestanti avere queste tipiche dimore per i week-end e le vacanze. Dai moli e dalle piccole spiagge private, un prato ben tosato sale dolcemente fino alle soglie delle case, rallegrate dalla fioritura di deliziosi giardini. Dietro, le proprietà hanno quasi sempre un grande tratto di bosco lasciato allo stato naturale. Nell’aria si mescolano i profumi della vegetazione e l’odore stuzzicante dell’asado che cuoce lentamente all’aperto sulle braci della parrilla, accessorio indispensabile di ogni casa argentina. I corsi d’acqua appaiono limacciosi, ma quando ci s’immerge per una nuotata si nota che non si tratta d’inquinamento, bensì del limo naturale e fecondo che viene dal tropico, dalle foreste fluviali e da regioni relativamente poco abitate. Nel delta la natura ha deciso di strabiliare i botanici. Alberi nostrani convivono con essenze tropicali. Gli accostamenti e le mescolanze sono incredibili. Pioppi e conifere svettano fra palme ed eucalipti, salici piangenti si chinano sull’acqua fra ciuffi di papiro e canneti di bambù. Le araucarie s’affiancano ai platani, belle macchie di croton e phillodendron fungono da sfondo a cespugli d’ortensie, fucsie ed ibiscus. Azalee, gardenie, strelitzie e camelie fioriscono accanto ai banani. Gelsomini e lavande profumano l’aria, mentre le più variegate specie d’edera si contendono gli spazi sui muri e sui tronchi. Gli argentini hanno contribuito allo sviluppo di questa flora eterogenea, forse perché anche loro sono frutto di trapianti e acclimatazioni. Al Tigre hanno riprodotto qualcosa di padano, un po’ di foresta tropicale, il giardino all’inglese, il bosco alpino, il canneto e la brughiera. L’eterogenea tipologia delle case, la varietà dei moli, i nomi curiosi delle proprietà conferiscono alla regione del delta un aspetto incredibile, un misto fra laguna veneta, paesaggio olandese e rete dei clong thailandesi. Al calar del sole, quando il traffico dei vaporetti diminuisce drasticamente, i fortunati del Tigre s’apprestano a trascorrere irreali serate di pace, mentre la frescura delle acque mitiga la calura umida e, purtroppo, s’avverte il ronzio delle prime zanzare della notte, per fortuna non nocive e facilmente allontanabili. Alle prime luci dell’alba, migliaia d’uccelli lanciano i loro richiami che annunciano un’altra giornata di festa e di sole estivo, mentre silenziosi i colibrì incominciano a volare di fiore in fiore come azzurre libellule.
DONI DI NATURA
Al confine settentrionale e in ambiente tropicale, l’Argentina possiede la maggior parte del territorio interessato dalle Cascate di Iguaçu ed anche la più bella. Si procede su passerelle sospese sull’abisso. Il fiume giunge lento dai meandri della foresta. Quasi presago di ciò che lo attende, sembra titubante nel proseguire, si divide in centinaia di rami che scivolano sotto tunnel di vegetazione, lambendo grosse radici e rive ricoperte d’erba e di fiori. Poi, all’improvviso, il balzo impressionante. Lo spettacolo è unico al mondo. L’acqua cheta e verdastra si trasforma in una massa bianca furente, o forse terrorizzata, che urla nelle gole, rimbalza mille volte su scogli neri, s’avventa contro pareti ripide di roccia, fino a raggiungere in basso l’altra acqua amica del Paranà. Insieme correranno per 1.600 km, fino a confluire nel Rio de la Plata a Buenos Aires, chiamato “mar dulce”, poiché visto dal lungofiume sembra un mare e per attraversarlo occorrono ore di navigazione. Nell’estremo sud argentino si trova una città costiera norvegese sorta per errore in un paesaggio da Oberland bernese. Questa è Ushuaia vista dall’alto o navigando nel canale Beagle, oppure passeggiando nelle sue strade pittoresche di città dell’estremità australe del mondo abitato. Poco più a sud, s’estende l’immenso continente di ghiaccio dell’Antartide. Ecco la capitale della Terra del Fuoco. Così la chiamò Magellano, avvistando terra dal suo galeone, nel lontano 1525, allibito nel vedere tanti falò ardere lungo la costa di quest’isola alla fine del mondo, prima del terribile Capo Horn, fatale ai nocchieri per le paurose correnti e le burrasche, nel punto critico di scontro fra Atlantico e Pacifico. Gli indigeni Yamana vivevano qui tranquillamente, dedicandosi alla caccia e alla pesca. Gli spagnoli li definirono selvaggi “fueguinos”, per i loro fuochi rituali o d’avvistamento, probabilmente semplici fonti di calore, indispensabili e perennemente accesi in questo clima glaciale, dove gli indigeni vivevano nudi, con il corpo spalmato di grasso animale, sicché tenevano fuochi e bracieri persino a bordo delle loro primitive imbarcazioni da pesca. Purtroppo, la conquista, la colonizzazione e il tentativo di conversione dei nativi, per opera dei nuovi arrivati e dei missionari, furono fatali per le etnie locali, decimate dalle malattie importate dall’Europa e dal traumatico cambiamento d’abitudini. Costringere uno Yamana a vestirsi fu come condannarlo ad ammalarsi di raffreddore, bronchite o polmonite, infermità letali per chi non aveva le opportune difese immunitarie. Oggi, raccontano che sopravvive una sola donna anziana Yamana, che risiede su un’isola nel canale di Beagle, mentre si conta appena una dozzina di meticci in tutta la Terra del Fuoco, che ha una superficie pari a quella dell’Irlanda. La grande isola dei “fueguinos” e ancora il paradiso dell’otaria, del pinguino, della balena, di cormorani e gabbiani, il meraviglioso ambiente attrae turisti da tutto il mondo. Si viene qua per fare “andinismo” su montagne d’eccezionale bellezza, affrontando difficili scalate fra i ghiacciai, ma anche per passeggiare nel magnifico parco nazionale, navigare nel Canale di Beagle e nello Stretto di Magellano, fare bucoliche escursioni verso i laghi Escondido e Fagnano. Nell’occidente argentino lungo la Cordillera de los Andes, altre meraviglie. Bariloche dista da Buenos Aires più di 1.600 km, 24 ore d’autobus. Queste dimensioni spazio-temporali sgomentano gli europei, poi si scopre che adeguandosi alle abitudini argentine i lunghi viaggi via terra risultano abbastanza rilassanti e senza problemi, con la nota economica del costo irrisorio dei biglietti. La zona del laghi patagonici è considerata la Svizzera degli argentini. Costoro, pur vivendo in un paese ricco di meraviglie naturali uniche al mondo, non perdono l’abitudine di fare confronti non sempre adeguati con luoghi della lontanissima Europa. La vasta area dei laghi ha forse attinenza con quella che doveva essere l’Elvetia primordiale, senza tanti centri abitati, autostrade, trenini rossi, tram blu, banche, cattedrali gotiche, fabbriche d’orologi e caseifici. La bella città lacustre sembra una Montreux senza i lussi del Lemano oppure una Cortina senza Dolomiti o una Chamonix grande il doppio con i prezzi ridotti di tre quarti. Fare tanta strada per raggiungere un centro di villeggiatura estiva e sport invernali, con tanti alberghi, strade piene di negozi eleganti e quartieri di chalet fra gli abeti, non varrebbe la pena se Bariloche non fosse un’ottima base di partenza per le escursioni nella magnifica regione. Da non perdere l’escursione al Bosque de los arrayanes che sono stranissimi mirti arborei e il Recorrido de los siete lagos, uno più bello dell’altro. Con i criteri argentini si parla di una piccola gita, ma si tratta in pratica di oltre 500 km. e si viaggia quasi ininterrottamente dalle 8 del mattino al tramonto, attraverso i grandi parchi nazionali Nahuel Huapi e Lanin, magnifiche riserve forestali e idriche. Tutto l’occidente argentino è occupato dalla Cordillera de los Andes con valli e picchi da far invidia alle nostre Alpi, specie nella regione patagonica. El Calafate è l’arbusto Berberis buxifolia. Noi lo chiamiamo crespino selvatico, considerandolo una pianta nociva. Gli argentini usano i suoi frutti, simili a mirtilli con sapore di lampone, per fare marmellate, dolci e liquori. Dalle foglie e dai ramoscelli, gli antichi pescatori del grande Lago Argentino estraevano un prodotto gommoso adatto per calafatare la chiglia delle barche. Il nome di El Calafate fu perciò assegnato ad un villaggio del far-west argentino, nella selvaggia provincia di Santa Cruz. Lungo la polverosa strada principale, pomposamente chiamata Avenida Libertador, s’allineano bassi edifici di legno con botteghe e locande, ma intorno sono sorti alcuni alberghi di stile montano per accogliere i turisti, attratti dalle straordinarie bellezze naturali patagoniche. Intorno a El Calafate, una barriera montuosa nasconde, con un geloso gioco d’alture brulle e inospitali, i gioielli della regione. A settentrione del villaggio si scorge il Lago Argentino dalle acque turchesi che rivelano la loro origine glaciale. Il lago è il più esteso del paese (100 x 22 km). Si dirama in numerosi “brazos”, veri e propri fiordi nei quali galleggiano i “témpanos”, termine spagnolo che significa iceberg. Le montagne di ghiaccio avanzano, sospinte dal vento e dalle correnti. Soltanto il 15% della massa emerge, il resto è sott’acqua, sicché, notando le dimensioni esterne, si rimane impressionati dal volume globale dei colossi che il disgelo stacca dai ghiacciai andini. Se si naviga per dodici ore su un grande catamarano che salpa dal porto lacustre di Punta Bandera, ad occidente di El Calafate, si visitano, uno dopo l’altro in un crescendo d’emozioni, i più grandi ghiacciai della regione, dallo spettacolare Upsala al grandioso ghiacciaio Spegazzini, per approdare all’ora del picnic ai piedi della foresta che separa il lago principale dal piccolo lago glaciale Onelli. Nel cielo si librano i favolosi condor e nella foresta si ammirano i faggi australi che gli argentini chiamano lenga, ñire o coihue. Il Perito Moreno è uno dei pochi ghiacciai della Terra ancora in fase espansiva. Avanzando chiude il passaggio lacustre fra il Brazo Rico e il Canal de los Témpanos. Le acque del Brazo Rico aumentano di livello esercitando una spaventosa pressione sulla massa ghiacciata. Periodicamente si verifica un crollo apocalittico, atteso con ansia dagli studiosi della fenomenologia glaciale e dai turisti, in attesa spasmodica con le cineprese per immortalare il grandioso spettacolo naturale. La costa atlantica argentina cambia da nord a sud. A circa 300 km di autostrade o vecchie ferrovie ci sono le spiagge degli abitanti della capitale. Pina Mar per i ricchi fa pensare alla Versilia, Mar del Plata è la Rimini locale. Invece, a sud la costa è selvaggia e ospita straordinari parchi naturali dove si ammira la fauna marina. Se un argentino si sente malfermo dopo troppe libagioni dice di essere “fra Mendoza y San Juan”. Fra queste due belle città esiste una regione collinosa ai piedi delle Ande, molto simili alle nostre terre famose per la viticoltura. Dal Monferrato, dalle Langhe, dal Veneto, dalla Sicilia i nostri emigranti a frotte hanno trapiantato qui i nostri vitigni e i loro discendenti producono vini eccellenti esportati prevalentemente in tutte le Americhe. Insomma, se l’Argentina avesse città d’arte, borghi storici, scavi archeologici, musei e cattedrali, noi avremmo difficoltà a sostenere di vivere nel paese più bello del mondo. Purtroppo il problema siamo proprio noi. L’Italia sembra un Titano incatenato e forse anche l’Argentina avrebbe forse più possibilità se non ci fossero gli argentini.
Umberto Mantaut