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Nel nome di mamma

L’8 maggio è la festa della mamma. Chi da tempo l’ha perduta non può farle un regalo, ma certo ricorda il detto: “di mamma ce n’è una sola”. Alle femministe che, sinceramente, mi stanno antipatiche, devo riconoscere che a volte sollevano problemi seri. In questo mondaccio pieno di tunnel dei quali non si vede l’uscita, considerano importantissimo che d’ora in poi i figli portino il cognome materno. Forse fanno sorridere, ma attenti ai verbi. Se ridessimo griderebbero allo scandalo e sghignazzando ci sarebbero querele, Tuttavia, pensiamoci bene. Che merito hanno i padri per arrogarsi il diritto di dare solo il loro cognome ai figli? Da qualche parte si rimedia col doppio cognome. La Spagna è piena di Garcia-Fernandez e Gonzales-Mendoza, ma anche qui la signora occupa la posizione secondaria. Da noi, appena il pupo caccia il primo strillo, capendo di essere capitato in una valle di lacrime, il genitore, folle di gioia specie se la creatura ha le palline, corre all’Anagrafe  a registrarlo a proprio cognome. Lui davvero ha molto contribuito nel faticoso impegno di mettere al mondo il nuovo esserino umano. Di norma si tratta di alcuni minuti, pare pure piacevoli, specie per il concepimento del primogenito, noto come figlio dell’amore. Per i figli successivi la pratica si archivia nel faldone intitolato “dovere coniugale del sabato sera”. Infatti, i bravi mariti sembrano tutti un po’ tristi durante i fine settimana, specie quelli che non si ubriacano di partite di pallone teletrasmesse. Pensano all’amante lasciata sola proprio in giorni che sarebbero tanto felici a Capri insieme, ma la cosa peggiore è l’incubo del timballo che la suocera prepara con tanto amore per il pranzetto domenicale. Intanto una mamma si sobbarca un discreto peso per nove mesi, soffre per espellerlo, poi per almeno trentacinque anni si occupa della prole. Le figlie non aiutano per paura di guastarsi le unghie laccate, i maschi mammoni lasciano il desco genitoriale solo quando trovano quella che lava bene i calzini, talmente innamorata da scrivere poesie postmoderne sul profumo dei piedi dell’essere amato. Intanto tutti ci firmiamo col presuntuoso cognome di papà. A volte può essere una bella noia. Ecco per ridere una esperienza personale. Chiamarsi come lo scrivente Mantaut in Italia è assai scomodo. E’ francese, si pronuncia Mantò. Niente di nobile. Se fosse scritto Manteau potrebbe tradursi come Mantello. In mille occasione i distratti impiegati storpiano questo strano nome che può diventare appunto Manteau, Mantanant, Mantaud e persino Manitù. Per correggere importanti documenti, divenuti non validi, immaginiamo un passaporto, bisogna impazzire con la burocrazia. In Francia dopo ricerche, chiamiamole araldiche, risulta che la famiglia dopo secoli in Alsazia scese a Chambéry in Savoia. Erano orafi di corte. Il nonno paterno, Leonard, rimasto vedovo, lasciati in Francia i figli adulti, si sposò in Piemonte in seconde nozze con una Bruneri d’Ala di Stura, di una valle alpina dove si parla un dialetto francofono. Lui morì molto presto di cancro dei fumatori, quando mio padre aveva solo due anni. Quest’ultimo, sotto il fascismo dovette scegliere fra le due cittadinanze. Da italiano fu inviato a combattere contro i fratelli francesi. Forse anni di tenda, di botti di cannoni e stress contribuirono al suo precoce infarto. Dunque, personalmente devo tutto ai sacrifici di mamma. Grazie a Dio e alle lotte delle femministe, posso finalmente firmarmi col suo nome, pure quello un po’ scomodo ma assai più bello, proprio nel giorno della festa delle mamme.

Umberto Bertelli-Sacco Sclarandis di Bibiana

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