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pechino

Difficile capire i cinesi

Ormai li troviamo ovunque. Non esiste più strada nelle nostre città senza l’immancabile bazar cinese dove possiamo trovare di tutto a prezzi di concorrenza purtroppo allettanti, sebbene si sappia che in gran qualche articolo “made in China” rischia di durare da Natale a Santo Stefano. Andare a cena dal “cinese” è molto di moda in tutta Europa e bisogna riconoscere che la cucina è apprezzabile.  Non è vero che l’igiene non sia rispettata, oppure difetta come eccezione, riscontrabile anche in tanti locali nostrani gestiti da malfattori. Nei nostri ambienti abitativi, nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto mai i cittadini cinesi si fanno notare per scorrettezze, danno poca confidenza, ma se ci si rivolge loro con garbo sono squisitamente gentili. La loro lingua per noi è un enigma. Si conosce solo la massima francese “trois femmes font un marché”, poiché tre figurine femminili messe di seguito negli ideogrammi identificano un mercato, ossia una riunione dove si vocifera, dato che tutto il mondo è paese. Loro, arrivati qui, misteriosamente imparano subito le lingue europee pronunciate come un cinguettio, con tutte le erre trasformate il elle. Per “capile” meglio bisogna “andale” e “stale” un po’ di tempo al loro contatto. Allora si comprende trattarsi di un pianeta a parte popolato da un miliardo e mezzo di alieni attivissimi e dalla straordinaria cultura millenaria. Qualche souvenir personale magari aiuta.

LA PRIMA IMPRESSIONE E’ QUELLA CHE CONTA

Un immenso quadrato di terraferma protetto da monti inaccessibili, circondato da acque infide e sovrastato da un concavo cielo bianco-azzurro, come un’enorme tazza da riso rovesciata. L’idea cinese dell’universo, immutata da millenni e simboleggiata in vari luoghi da gigantesche tartarughe di bronzo, si coniuga con la puntigliosa distinzione fra le opposte polarità.  Il male e il bene, il buio e la luce, l’ovest lunare e l’est solare, la morte e la vita, la femmina e il maschio, yin e yang, il nord infido e il sud fecondatore. Così le città, sedi di vita, d’attività e di potere, sono ancora oggi pianificate a pianta quadrata con le vie rigorosamente ortogonali e orientate verso i quattro punti cardinali. A Pechino, Beijing capitale del nord, megalopoli di ventidue milioni d’abitanti, strade ad otto corsie intersecano enormi viali con dodici carreggiate. L’intera area urbana è un quadrato di quarantaquattro chilometri di lato, ma le periferie estreme si spingono ormai fino a centottanta chilometri dal centro. Complicati sistemi di viadotti e sottovie svincolano gli incroci dove i semafori provocherebbero apocalittici ingorghi. Appena giunti si sfata il primo preconcetto sulla Cina, immaginata come un paese su due ruote, in uniforme grigio-azzurro, socialmente livellato. Ci sono davvero innumerevoli biciclette, un fiume multicolore nelle apposite corsie ai margini delle strade, ma il traffico automobilistico, relativamente disciplinato, lentissimo e senza posa, fa tremare al pensiero della Pechino del futuro con una vettura ogni due abitanti come Roma, Berlino o Los Angeles. Già oggi la capitale cinese è sull’orlo del collasso da sovraffollamento e inquinamento. Ressa alle fermate dei filobus e agli ingressi della metropolitana, ore nel traffico per recarsi da un quartiere all’altro, caos di passeggeri e bagagli in aeroporto, però verso sera dieci milioni di biciclette si allineano ordinatamente nei loro parcheggi, un milione d’automobili ha raggiunto la propria destinazione, migliaia d’autobus sono rientrate in rimessa e centinaia d’aerei hanno preso il volo regolarmente. La città veglia in un turbine di taxi rossi e gialli. Sotto un cielo plumbeo grandi insegne luminose ammiccano dall’alto dei grattacieli. Giunta l’ora di cena la folla rifluisce dall’immenso viale Changan con uffici, grandi alberghi e fast-food americani, percorre la commerciale Wang Fu Jing Dajie piena di grandi magazzini e boutique europee. Svoltando a sinistra nella Dong Hua Men Lu si assiste ad uno spettacolo incredibile: centinaia di cuochi con le loro cucine all’aperto preparano innumerevoli specialità. La gente acquista e consuma sul posto, si formano montagne di tazze e piatti sporchi, solerti spazzini assicurano che la via non si trasformi in una pattumiera. Spiedini, crostacei, crocchette, ravioli, riso in tutte le salse, zuppe bollenti, panzerotti, springrolls, polpette, verdure, dolci in nuvole di zucchero a velo creano effluvi che si mescolano ai vapori delle pentole, al fumo dei fornelli, all’emanazione delle padelle e ai gas di scarico delle auto. Una nube dall’odore indefinibile sale fino al decimo piano dei palazzi. Intanto, nei ristoranti di lusso aperti sulla stessa via gli animali più diversi passano dalla vita alla morte fra l’indifferenza dei clienti. Granchi, pesci, serpenti, rospi, aragoste e volatili attendono pazienti in grandi teche di vetro con lo sguardo stranito dalle luci e dal movimento. Nei negozi aperti fino a tardi si vende di tutto. Dopo secoli miserrimi e gli ultimi decenni di penuria pianificata, le masse cinesi esterrefatte si confrontano con la varietà e l’abbondanza delle merci e riscoprono il loro gusto innato per il colore, l’abitudine a spendere e a mercanteggiare. Molte ragazze pechinesi passeggiano sinuose e sofisticate in abbigliamento europeo, giovani impiegati impeccabili in giacca e cravatta, il telefonino incollato all’orecchio, incrociano operai in canottiera, popolane infagottate, laceri venditori ambulanti, malandati conducenti di riksciò e mendicanti. Dietro le quinte della Pechino burocratica, commerciale, pulita, ordinata e scenografica, si celano realtà meno allettanti. I grattacieli dai riflessi di cristallo e gli enormi cartelloni pubblicitari dipinti a mano per reclamizzare l’uso delle carte di credito, dei detersivi e degli elettrodomestici, non riescono a nascondere la distesa di casermoni popolari e, più lontano dal centro qualche baraccopoli. Tutto ciò in una nazione con la pretesa di insegnare al mondo come si riscatta il proletariato. La smisurata città non ha tuttavia alienato tutti i suoi abitanti, specie quelli più anziani e di sane origini contadine. Senza cani, qui supertassati, i pensionati escono nel caos dei veicoli a portare a spasso il loro canarino in una gabbietta di bambù. Nei parchi s’incontrano, appendono le gabbie agli alberi e si deliziano del canto dei loro amici pennuti. Sulla Tienanmen, scenografica spianata nel cuore della capitale, teatro di parate militari e di drammatici accadimenti, una folla d’adulti beati gioca con magnifici aquiloni, mentre le maestre danno spiegazioni alle scolaresche attentissime di bimbetti sorridenti. La sera, ai piedi dei grattacieli, le donne lavorano a maglia su seggiolini pieghevoli, badando ai ragazzetti. All’alba, una moltitudine ordinata di cittadini affolla i parchi e si dedica alla cura del corpo e dello spirito, praticando una strana e lenta ginnastica che sembra una lotta silenziosa contro la propria ombra, forse contro le paure e le frustrazioni di una vita dura e frenetica.

Nanchino – Misteriose terapie

Nella fornace della Cina si soffre il freddo! L’abuso d’aria condizionata, ovunque, fa pensare che i cinesi associno l’idea del turista a quella dei surgelati, con la differenza che questi ultimi si scongelano ogni tanto e si trattano in modo sbagliato, sicché, somministrati nelle cosiddette cene occidentali, causano a metà degli ospiti fastidiosi attacchi di diarrea, fortunatamente in forma lieve. Nanchino a prima vista è deludente, ma poi ci si deve ricredere. Anche in Cina le città meridionali avviliscono la loro bellezza con un contorno di sciatteria e sudiciume. Per apprezzarle, occorre distogliere lo sguardo dai marciapiedi e tener conto dell’insieme. Intanto, la cattiva fama di città dal clima infernale è smentita dalla presenza di magnifici viali di platani ombrosi che mitigano il calore umido incombente sui quartieri centrali. Nelle periferie vi sono parchi verdissimi, laghi, canali e l’imponente Yangzi, il Fiume Azzurro, che scorre lento e superbo a nord della città. Per secoli la via d’acqua vitale per la Cina ha tagliato in due il paese, costringendo i viaggiatori e le merci a traghettare su malsicuri ferryboat. Oggi i nanchinesi invitano i visitatori ad ammirare per prima cosa l’enorme ponte stradale e ferroviario che collega le due rive dello Yangzi, con un balzo di quasi cinque chilometri. Dal punto di vista tecnico si tratta di un ponte superato ed esteticamente brutto, ma il manufatto è frutto dello sforzo ammirevole di tutto un popolo per rispondere allo sgarbo dei russi i quali, nel 1960, lasciarono di punto in bianco i lavori a metà, dopo aver promesso invano aiuti economici e assistenza tecnica. Inaugurato nel 1968, il ponte è oggi percorso da un ininterrotto serpentone di veicoli e rimbomba per il continuo transito dei treni che collegano Nanchino con il nord della Cina. Tutto in città parla di Sun Yatsen, il padre della Cina moderna, che dedicò tutta la sua vita a combattere la dinastia Qing, anacronistica e corrotta. Il mausoleo del Dott. Sun Yatsen si raggiunge salendo a piedi sui primi contrafforti della Montagna di Porpora, in un magnifico parco naturale che ospita anche i tumuli dei Ming. Al centro della città, tutte le arterie principali si chiamano Zhongshan, altro nome di Sun Yatsen. Esse partono da una rotonda chiamata Xinjiekou, assediata dai grattacieli e dal traffico, ma i nanchinesi hanno anche molte oasi dove passeggiare, cenare e mercanteggiare, secondo le molli abitudini locali. La città vecchia è attraversata da canali che partono dal rio Qinhuai, con molti locali caratteristici e mercatini vivaci. Sul Lago del Drago Nero si possono ancora frequentare le famose case da tè costruite su palafitte, inoltre si può visitare qualche piccola impresa che estrae le perle dalle ostriche d’acqua dolce, producendo gioielli. Tuttavia, la visita della capitale del sud trova la sua principale giustificazione nell’esistenza del grande Museo Cittadino, nei pressi della Porta Zhongshan. Il pezzo sensazionale della collezione è senza dubbio il famoso “vestito di giada”, abito funebre imperiale, formato da 2000 tessere di giada verde, cucite con fili di metallo prezioso: oro per l’imperatore, argento per i nobili e bronzo per i generali. Comunque, agli occhi di un occidentale, sono assai più interessanti i documenti riguardanti la storia della scrittura cinese, dai pittogrammi agli ideogrammi, fino alla loro relativa semplificazione con i caratteri del cinese moderno. Per gli studi sull’agopuntura, gli studenti nell’antica medicina facevano riferimento ad un modello umano in bronzo, oggi conservato nel museo, con i 365 punti sensibili del nostro corpo distribuiti con particolare concentrazione sul capo, sul dorso e sugli arti, mentre la zona ventrale sembra relativamente poco importante per questa misteriosa terapia. A livello personale ho fatto un’esperienza incredibile. Alcuni massaggiatori, dopo attento studio del modello museale, hanno messo a punto una tecnica d’agopuntura simulata, servendosi delle dita. Uno di questi, giovanissimo e minuto, tanto da sembrare un bambino, dopo avermi chiesto informazioni sui miei personali malanni, sapendo che soffrivo di “cervicale”, grazie all’aria condizionata degli alberghi tailandesi, mi sottopose alla terapia delle dita. I polpastrelli premevano come punte di spillo, ma non sul collo, bensì su certe aree della pianta dei piedi. Dopo un’ora di trattamento intensivo ogni sintomo scomparve come per incanto e non si è mai più ripresentato.

Shianghai-Shianghai

Il clima caldo umido del tropico e l’inquinamento dell’aria creano un velo di brume giallastre sui tetti di Shanghai. Scendendo dal treno nella grande e caotica stazione ferroviaria, sembra quasi di immergersi in un’aria viziata per effetto della respirazione dei troppi esseri umani ammassati nella megalopoli. Shanghai: 27 milioni d’abitanti, una delle città più popolose del mondo, il più grande centro della Cina, porto enorme sulle rive dell’Huangpu, affluente del Fiume Azzurro in prossimità della sua immensa foce. Meno estesa di Pechino, la città si sviluppa in altezza con una selva di grattacieli il cui numero è destinato a moltiplicarsi con l’abbattimento d’interi quartieri di catapecchie. Qui i contrasti appaiono stridenti. Shanghai vive un sensazionale boom economico e edilizio, in concorrenza con Hong Kong, Taipei, Seul e Singapore. New York non riesce più a reggere al confronto. Un enorme flusso di capitali ha riempito la città di prodotti, tutte le ditte del mondo aprono qui uffici di rappresentanza e succursali, banche e società d’assicurazione fanno affari d’oro, ovunque si discute e si contratta in tutte le lingue conosciute. L’inflazione controllata spinge i cinesi ad acquistare. Il consumismo che in occidente è endemico qui è frenetico, con prezzi dalle incredibili distorsioni. Per la medesima merce, cambiando negozio o quartiere, si praticano prezzi assai differenti. Carissima una tazza di caffé in un locale di lusso, quasi regalati certi articoli pregiati negli innumerevoli supermercati. I negozi sono affollati fino a tarda ora, con turni nel tentativo di arginare il traffico caotico. Automobili, filobus, biciclette e pedoni, fisicamente pressati in un pauroso corpo a corpo, rendono il centro invivibile. Il benessere ha un prezzo pagato dalle masse e un risvolto da occultare.  Le condizioni di lavoro farebbero gridare allo scandalo i nostri sinistri sindacalisti in doppio petto, che forse conoscono la realtà cinese, ma non ne parlano per non sconcertare gli elettori. Negli scavi cinesi i manovali sgobbano mezzi nudi con la mota fino alla cintola, i muratori sembrano acrobati su precarie impalcature di bambù a trenta piani d’altezza, le operaie stanno in piedi per ore con le mani nell’acqua bollente per dipanare il filo dei bozzoli. Se qualcuno s’accascia, si ferisce cade e muore, nessuno apre inchieste. Con tanti ricambi a disposizione le fabbriche continuano a funzionare a pieno regime e sotto “regime”. Del resto, nelle campagne si sono viste le mondine chine nell’acqua delle risaie, come al tempo di “Riso amaro”. Ovunque, uomini e bestie da soma sono accomunati nello sforzo di produrre per lo stato nella calura delle sconfinate pianure. Sulla Nanjing Road, vero cuore commerciale pedonale di Shanghai, sotto un’orgia d’insegne luminose, la folla che non ha pace neppure nel mezzo della notte crea un perenne ingorgo di corpi umani il cui spostamento è regolato da semafori. Mao, probabilmente, si rivolta nella tomba vedendo i suoi sudditi con le braccia cariche di pacchi e il naso all’insù davanti alle vetrine dei trasgressivi sexy-shop della catena Beautiful. Per la cultura e gli spettacoli, nella zona dell’Esposizione, all’ombra del colossale Mandarin Hotel, è sorto lo Shanghai Centre, una specie d’enorme Barbican d’oriente, dove importanti mostre e grandi spettacoli attirano, specie di sera, una gran quantità d’intenditori internazionali. In un teatro dello Shanghai Centre s’esibisce il famosissimo Circo di Shanghai che offre lo spettacolo d’equilibrismo e contorsionismo più sensazionale del mondo. Splendidi monumenti e famosi templi arricchiscono la capitale commerciale della Cina, conferendole un tocco di città d’arte e città mistica. Il vecchio centro storico, dentro l’anello delle Renmin o Zhonghua Lu, è oggi oggetto di un grandioso, ma discutibile restauro che lo trasformerà in un colossale centro commerciale in falso stile cinese, con pessime influenze giapponesi. Per fortuna sono ben tutelati il bellissimo giardino Yuyuan e il Padiglione del Tè, nel mezzo di un laghetto con ponti a “nove angoli”. Il Buddha di giada è senz’ombra di dubbio l’opera d’arte più insigne della città. Scampò alla furia iconoclastica delle famigerate guardie rosse, perché i monaci seppero erigere in una notte un muro di protezione con una grande effigie di Mao, l’intoccabile. Il Buddha dai candidi riflessi è nuovamente oggetto di venerazione e ammirazione nel bel tempio Tufosi, chiuso fra mura color zafferano presso il rio Suzhou.

Crociera sul fiume Li

Le colline sono come fermagli di smeraldo e l’acqua è un sinuoso nastro di giada. Così è descritta la valle del Li dal poeta Hanyu, ai tempi della dinastia Tang, ma forse questi sono luoghi che le parole non riescono a dipingere e i pennelli possono solo abbozzare. E’ impossibile trovare aggettivi adeguati alle infinite tonalità di verde della vegetazione, ai mutevoli riflessi delle acque e alla bellezza bucolica del paesaggio. Si parte da un modesto imbarcadero a Zhujiang, nei pressi di Guilin, su un barcone dotato di ristorante e ponte panoramico. La crociera dura più di quattro ore lungo un tratto di 80 km, nella parte più suggestiva della valle. Ad ogni ansa del fiume, una serie di quadri fantastici allieta la vista dei gitanti, una specie di galleria di pitture cinesi, con tutti gli ingredienti di un’arte figurativa che a noi sembra leziosa ed enigmatica come il teatro delle ombre. Dietro cortine di bambù e boschetti di cassie sfilano i picchi dai nomi fantasiosi: collina dalle cinque dita, colle del serpente, il dragone, collina della luna, i nove cavalli, il verde loto, bimbo che prega Buddha, il picco della rastrelliera dei pennelli. Il paesaggio riflesso dalle acque crea immagini di sogno. La presenza umana si nota appena: una pagoda nascosta fra i baniani, una capanna, giunche ancorate alle rive fra le felci, bufali al bagno, cormorani pescatori e venditori di cocomeri. A tratti cade una pioggia tiepida che non molesta. Nubi e vapori sfumano ancor più i colori e le prospettive, l’acqua ravviva le chiome degli alberi, lucida le rocce e alimenta cascatelle e ruscelli affluenti del placido Li. Si giunge al bel villaggio di Yangshuo e si sbarca malvolentieri. Dispiace sempre ridestarsi dopo un sogno piacevole. Yangshuo vive di turismo e risuona dei richiami dei venditori. Il mercatino è vivacissimo e ricco di prodotti artigianali e d’ingenue pitture ispirate dal paesaggio della regione. C’è una povertà dignitosa nella valle del Li e la gente è cordiale e sorridente. Lungo il fiume s’attivano pescatori e battellieri, nelle radure fra i monti si lavora con i bufali d’acqua nelle risaie verdissime, negli orti e nei campi di juta. Non ci sono macchine, cemento, ciminiere, rumori. Anche il tempo qui si è fermato ad ammirare la natura.

L’ANATRA E IL TOPINO

Dopo 48 ore di lenta lavorazione e sapiente cottura, l’anatra laccata è a puntino per gli ospiti. Lunghe pennellate di caramello sulla pelle rosolata a lento fuoco hanno conferito al superbo esemplare il colore caratteristico, simile a quello di un legno pregiato trattato con il coppale. L’anatra è esibita su un prezioso piatto di porcellana dipinta a mano. Poi i camerieri in livrea affettano con una lama affilatissima le carni prelibate, badando a lasciare ad ogni fettina una parte di crosta, una di grasso e una di polpa magra. Su sottili crèpes di pasta bianca, le fette di carne devono essere gustate con salsa di soia e filamenti di verdure pregiate. Intanto, un gran disco girevole di cristallo offre alla portata degli ospiti un’infinità di pietanze d’alta cucina cinese. I commensali afferrano con le bacchettine piccole porzioni e le depongono nel piattino individuale fra coppette destinate al riso e ai brodini digestivi da consumare negli intervalli con l’ausilio di piccoli cucchiai di leggera ceramica. Arachidi fritte, pistacchi, pollo al miele o al limone, pollo con funghi, mandorle e gambi di bambù, lingua di maiale, suinetto in salsa di soia, meduse, alghe fritte, lattughe scottate, radici di loto, zuppa di riso soffiato, zuppa di zenzero, peperoni, gamberi, pesci, granchi, ravioli al vapore, fritti o al forno con raffinati ripieni, dolci di cocco, frutta caramellata, meloni e cocomeri, ananas e leechy dal profumo di rosa. Le varie leccornie, assaporate con una certa difficoltà armeggiando con le bacchettine, non creano mai l’impressione di una fastidiosa sazietà. D’altra parte in Cina è cattiva educazione usare le nostre pesanti posate, specie il coltello, mangiare in fretta e consumare tutto, si offenderebbero il padrone di casa o lo chef del ristorante. Invece, assicurano che sia un peccato veniale sporcare la tovaglia. Nella Cina centro settentrionale la coltura dominante è quella del grano e la cucina si basa su una incredibile varietà di ravioli, al sud dominano le risaie e i cinesi usano il riso in tutte le possibili pietanze e salse. Nella regione del Guangxi, fra i monti velati dalla bruma tiepida del tropico, vivono undici delle oltre cinquanta etnie cinesi. La dura legge a limitazione delle nascite qui è sospesa dal governo autonomo regionale per evitare l’estinzione delle minoranze e la scomparsa d’antiche culture. I volti, i corpi delle persone, i dialetti, i costumi e l’artigianato cambiano da un villaggio all’altro. Non ci sono metropoli alienanti, solo cittadine tranquille, piccoli paesi, villaggi, spesso solo gruppi di capanne con il tetto di paglia di riso in una natura incontaminata. Verdi colline, acque limpide, grotte meravigliose e rocce bizzarre. Così nel Guangxi sintetizzano la situazione e tra le stranezze di questi luoghi ameni con i loro amabili popoli s’annovera senza dubbio la cucina. Nelle fattorie s’allevano cani e gatti da macello il cui spezzatino è molto apprezzato. Rane, lumache e tartarughe come si sa anche da noi sono prelibate. I serpenti entrano strisciando in vari menù o galleggiano nelle bottiglie di grappa di riso, venduta a caro prezzo per le sue virtù corroboranti. S’arrostiscono formichieri e salamandre. Grossi topi di fiume sono cucinati alla diavola, come il pollo nostrano. Se una famiglia d’etnia Zhuang propone una cena è meglio declinare l’invito con la scusa che si è già ospiti presso amici Han, quelli dell’anatra laccata. Infatti, presso gli Zhuang ci si preoccupa di deliziare gli invitati con il bocconcino prelibato della locale culinaria casereccia. Il piatto si chiama “ il topino dalle tre grida”. Si tratta di roditori da latte con non più di sette giorni di vita. Il primo grido lo emettono al momento dell’ estrazione dalla tana, il secondo quando sono tuffati nella salsa piccante e, infine, c’è il gridolino soffocato del topino masticato vivo dall’invitato, lusingato e assiso al posto d’onore nella capanna. Non si è capito bene come si dice buon appetito nel dialetto zhuang, ma sembra che la dieta variata della regione abbia effetti positivi sulla popolazione. Qui la parola magica è “longevità” e sembra che si possa scrivere in cento modi diversi.

                                                                                              Umberto Mantaut

 

 

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