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dresda

Difficile capire i tedeschi

Sebbene sia poco simpatico molta gente continua a chiamarli “crucchi, termine dispregiativo che può significare Unni bastardi. In noi orfani dell’Impero romano è rimasta la paura dei barbari, poiché proprio dalle terre nordiche discesero a fare scempio della più grande potenza mondiale dell’epoca, ormai in decadenza per corruzione e perdita dei valori. Dimentichiamo che con loro, nella storia recente, abbiamo coltivato il sogno di un’Europa unita e pacificata, dopo le guerre mondiali dove sempre loro, per fortuna perdendole, hanno offerto esempi di una proverbiale prepotenza. Eppure la Germania, cuore e motore dell’Europa, è un paese molto civile e colto, che per molti aspetti potrebbe rappresentare un modello per tutti, se accantonasse la pretesa di egemonizzare il nostro vecchio continente. Certamente nei loro comportamenti pubblici e privati sono molto differenti da noi e per comprenderli e per molti aspetti ammirarli bisogna frequentarli. Del resto questa è una regola che deve valere in ogni circostanza, prima di esprimere giudizi o peggio coltivare pregiudizi. Qualche memoria personale può far luce sul concetto.

Blond ist schön

Negli anni ’40, mentre su Torino cadeva una pioggia quotidiana di bombe inglesi che radevano al suolo interi quartieri, la nostra famiglia era “sfollata” in provincia di Cuneo nel paesone agricolo di Cavallermaggiore. In quel tempo si poteva frequentare la prima elementare a cinque anni come uditore e passare in seconda con un esame, non difficile per me che già leggevo e scrivevo a quattro anni. A scuola insistevano sempre sulla “R” maiuscola, iniziale di “rifugio”. Stava scritta sui portoni delle case dotate di cantina in grado di accogliere i passanti in caso di allarme aereo. Le sirene erano spaventose, ma i bombardieri all’andata passavano ad alta quota, sganciavano su Torino e tornavano indietro volando bassi con un rombo assordante. Nei rifugi giungeva il fragore delle esplosioni e lo sputacchiare inutile della nostra contraerea. Qualche raro aereo colpito esplodeva fuori del paese nei campi di mais. Allora si narrava di piloti e contadini carbonizzati. A Cavallermaggiore accadevano cose anche più spaventose. Una mattina, i tedeschi astuti fecero passare un loro convoglio di rifornimenti all’ora del treno dei pendolari, formato da carri bestiame con panche di legno. Quando in stazione quel treno in ritardo fu pieno di gente stipata, gli inglesi male informati arrivarono con gli aerei.  Il giorno dopo andando a scuola notai con i compagni un carro pieno di macerie che lasciava cadere mattoni e una cosa leggera con qualcosa di luccicante. Era la mano di un uomo con ancora l’orologio insanguinato al polso. A scuola certe maestre vestite di nero ci allineavano in cortile e ci dicevano che avevamo un Duce che ci avrebbe portati sicuramente alla vittoria. Mostravano le foto con un tipo pelato dalla faccia insignificante ma prepotente, quella di un Re francamente bruttino e di un Papa simile ad un lenzuolo bianco con gli occhiali. Vennero i tedeschi, casa per casa, rubando tutto. A noi presero persino le mele nella fruttiera e le patate nascoste sotto il letto. Mamma ci aveva schierati tutti e tre davanti a un armadietto dove teneva fra vecchie scarpe l’apparecchio per ascoltare di notte radio Londra. Non ci fecero nulla. Lei ripeteva insistentemente “Ich hab’ drei Kinder”, ho tre bimbi, e furono le prime quattro parole che imparai del tedesco. Un gigante biondo accarezzò solo mio fratello dai capelli chiarissimi. Il soldato commosso  disse qualcosa del suo bambino sotto i bombardamenti a Colonia di cui non aveva notizie.. Aggiunse “blond is schön”, biondo è bello, di buona razza. La sera andarono nel paese vicino. Ubriachi fecero scempio di donne e bambini.

Deutschland ist heutige geteilt – Colonia estate 1951

Der Sinn der ersten Stunden unseres Kurses ist Sie an die deutsche Aussprache zu gewöhnen. Lo scopo delle prime lezioni dei nostri corsi è di abituarvi alla pronuncia tedesca. L’insegnante è una ragazza bionda, molto pallida e delicata, parla lentamente, perché ha il compito di far capire ai suoi giovanissimi allievi il significato di ogni parola. Si chiama Olga, nome russo, padre di Lipsia, madre polacca. Il suo tedesco sembra una lingua dolce e musicale, piena di vocali, che non ha nulla da spartire con l’idea di un linguaggio secco e prepotente che ci siamo fatti durante la guerra. Italiani pochi nel camping “Deutzer” sulla riva del Reno nel verde dei giardini della Messenhalle a due passi dal ponte Hohenzollern che attraversa il fiume e permette di entrare in città nella zona centrale dominata dalla mole scura della celebre Cattedrale. Gli altri ospiti del campeggio sono spagnoli, francesi e olandesi, tutti fra i 13 e i 17 anni. Si tratta di una via di mezzo fra il campo-scuola e il campo di lavoro.  All’alba fa freddino, ma la vita del campo è presto riscaldata da una ricca colazione e dall’arrivo di Fräulein Olga. La sua lezione teorica dura due ore, poi si va tutti in città a spalare le macerie. Colonia è uscita dai bombardamenti con il 92% delle case distrutte o fortemente danneggiate. Ci sono ancora interi quartieri inabitabili dove le strade sembrano normali, ma se si guardano le finestre delle case si vede il cielo attraverso i vuoti. Certe bombe avevano la specialità di far crollare tutto l’interno dei palazzi, lasciando intatte le facciate. La ricostruzione è iniziata rimettendo a posto le fabbriche nelle periferie e i grandi edifici pubblici del centro. Intorno alla Cattedrale fervono i lavori per completare il restauro, le splendide vetrate, salvate con speciali accorgimenti sotto terra, sono state rimesse al loro posto. La stazione funziona bene, i tram sono nuovi e stranamente silenziosi. Alcuni palazzi, ricostruiti in fretta in un brutto stile moderno sono peggiorati da enormi insegne luminose e colorate. Una gigantesca e giallo-verde reclamizza la famosa Kölnish Wasser 4711, l’acqua di Colonia. La domenica si fanno interessanti escursioni con i tram, i treni locali e i battelli fluviali a Bonn, Colonia, Coblenza, Acquisgrana. L’estate passa presto, purtroppo,  Al momento di partire, Fräulein Olga saluta tutti molto commossa. Dice che siamo fortunati a poter tornare nei nostri paesi soleggiati e felici. Quando le ricordiamo che la Germania ci è sembrata un paese meraviglioso e allegro, lei replica con una frase ed un’espressione triste:  “Deutschland ist heutige geteilt”, l’odierna Germania è divisa, ma noi ce ne andiamo, forse, senza capire.

 

Ich hab noch einen Koffer in Berlin – Estate 1968

“Ho ancora una valigia a Berlino”. La voce di Anneliese canta arrochita dall’alcool in una birreria bavarese a due passi da Piazza di Spagna, nel cuore di Roma. Canta con le lacrime agli occhi, ricorda la Berlinerluft, l’aria di Berlino e il cielo della città, pallido e infiocchettato da nubi basse e leggere. Dietro la fronte della cantante passa il film della sua vita. Ragazza ebrea, brutalizzata dai nazi, fugge da un lager e approda in Inghilterra. Sposa un vecchio ricco, ma divorzia subito dopo la guerra per rifugiarsi in Italia. Un pilota italiano la lascia con due figlie in tenera età da mantenere. Campa facendo lezioni d’inglese e tedesco o intrattenendo con il canto la clientela dei locali notturni. La controllano sempre, da un tavolo appartato, gli occhi di ghiaccio di un’americana mascolina di nome Penelope, ma potrebbe benissimo chiamarsi Inge ed essere una SS. Il destino di Anneliese è segnato. Una vittima e una perdente. Berlino è lontana, in mano ad altri mostri totalitari. La valigia smarrita nel deposito bagagli della stazione Zoo contiene, forse e soltanto, una grossa calamita. Bisogna partire al più presto. Berlino manca nell’elenco delle città tedesche visitate ed amate. Si viaggia in quattro su una vecchia Ford. Prima tappa Norimberga. Nulla di sinistro che ricordi il famoso processo. Nessuna faccia da criminale nazista in giro. E’ una città borghese, graziosa, con molta vita, opulenza e allegria. E’ risorta dalla devastazione con metodo germanico, ogni cosa è tornata al suo posto. Le belle chiese sono state ricostruite o restaurate, pietra su pietra, recuperando dalle macerie o ricopiando da vecchie foto o da quadri, stampe o disegni d’epoca. Solo lo stadio nella periferia, con le sue magalomani dimensioni, cerca di racchiudere nell’arena vuota l’eco ormai lontana dei discorsi deliranti di Hitler. Si riparte verso nord-est. Al posto di frontiera Hof si entra nella DDR. Le formalità sono estenuanti e vessatorie. L’auto quasi smontata, il bagaglio perquisito, le scarpe avvolte in un vecchio Messaggero di Roma causano un incidente con le guardie. Fra violente imprecazioni i fogli di stampa capitalistica vengono sequestrati. Poi è polemica sulla lunghezza dei capelli che non corrisponde a quella sulla foto dei passaporti. Alla fine è chiaro che bisogna pagare una tangente per poter proseguire. L’autostrada è sempre la stessa, però la carreggiata è sconnessa. La campagna della Turingia non differisce da quella della Baviera, ma l’atmosfera è angosciante. C’è l’ordine tassativo di non fermarsi per nessuna ragione fino a Berlino. Le scarse auto tedesco-orientali sembrano topolini spaventati con una lunga coda di fumo nero. Ogni due chilometri si notano poliziotti armati fino ai denti. Nei pressi di Potsdam c’è un bivio. Un enorme segnale stradale indica trionfalmente : “Berlino Capitale della Repubblica Democratica di Germania”. Una targhetta piccolissima e quasi illeggibile dice: “West Berlin”. Le dittature, con tutta la loro vanagloria e le tragedie che provocano, hanno la debolezza di perdersi per i dettagli, scivolando sulla buccia di banana del ridicolo, del quale non hanno il senso. Così, per fortuna e come tutti si augurano, finiscono male e alla svelta. Si arriva ad un casello dove la fila è impressionante, ma non si tratta di pagare il pedaggio, sconosciuto persino nella Germania comunista, bensì occorre sottoporsi ad un altro controllo di polizia. Da una Mercedes un gigante biondo ci grida: “Siete venuti fin qui per vedere questa merda?”. Rispondiamo: “ Se la merda si chiama Berlino, forse vale la pena di tentare”. Si entra in città esausti e sempre meno ben disposti nei confronti dei vincitori della seconda guerra mondiale. La periferia è triste, ma verso il centro le cose cambiano, anche se si avverte che la città è occupata e divisa. Zona inglese, zona francese, zona americana, ben delimitate, come se i commensali avessero tagliato bene la torta senza mangiarla, ma piantando sulle fette la loro bandierina. La porzione più grande e gustosa se la sono accaparrata i russi e, lungo il taglio, hanno eretto il “muro”. Solo a vederlo si prova vergogna ad appartenere alla razza umana, capace di simili mostruosità. Nella parte occidentale la ricostruzione è avvenuta all’americana: vetro e cemento e, come alternativa, cemento e vetro. Strade perfette, pulite, vetrine scintillanti, la ricchezza ostentata non solo per gli acquirenti locali, ma anche per sfottere eventuali osservatori in grado di sbirciare qualcosa dall’altra parte dell’odioso muro comunista. Tuttavia, a Berlino Ovest c’è poco da vedere, poiché i cavallereschi alleati hanno concesso all’URSS l’onore di fagocitare tutto il centro storico della capitale sconfitta e distrutta. Berlino Ovest è una specie di grande EUR moderno, diviso in tre zone d’influenza, con aeroporto in comune in mezzo ai palazzi del quartiere di Tempelhof. Tutte le indicazioni stradali conducono alla famosa Kurfürstendam, la Via Veneto locale. Al fondo spicca un mozzicone di chiesa gotica nerastra, puntellato da grattacieli di cristallo. Ha un nome lungo e complicato, Kaiser-Wilhelm-Gedänchtniskirche. Ogni dettaglio rivela l’efficienza della città, non c’è alcuna traccia di macerie, la U-bahn corre silenziosa nelle viscere della terra e la S-bahn, sopraelevata, ha i vagoni puliti e luccicanti. La linea numero sei s’azzarda a passare sotto la Soviet-zone, attraversando stazioni soppresse, piene di vopos armati fino ai denti. Si ferma solamente nella stazione della Friedrichstrasse che funge da posto di frontiera e di scambio fra i due sistemi di trasporto metropolitano, ma i passaggi sono consentiti solo con visti speciali per gli stranieri. Le agenzie di viaggio della K-dam offrono a prezzi di propaganda l’escursione oltre il muro. La pubblicità annuncia emozioni forti, una specie di “All’inferno e ritorno”, che non può essere evitata se si vuole completare la conoscenza con la ex-capitale del terzo Reich. Si parte alle otto del mattino su uno strano autobus tutto di vetro, anche il pavimento, controllabile con un curioso sistema di specchi, poiché è proprio sotto i veicoli che i comunisti temono la presenza di spie all’andata e fuggiaschi al ritorno. La sosta al posto di controllo è lunghissima. Il luogo è sinistro, ma ha il nome grazioso di Checkpoint Charlie. E’ l’unico varco fra le due Germanie nelle compatta e truce barriera del muro lungo decine di chilometri, eretto dai russi nell’estate del 1961. Tutti i passaporti sono ritirati, bisogna svuotare le tasche e i bagagli non sono ammessi. I turisti vengono squadrati uno ad uno da occhi sospettosi, poi, finalmente, sale una guida tedesco-orientale, una donna-armadio con i modi di una istitutrice di correzionale. La voce monotona e arrogante incomincia ad illustrare le caratteristiche della capitale dell’est. Si nota che la donna è compresa nella sua mistica missione di cicerone e propagandista. Povera Berlino! I monumenti dell’ex-capitale nazista sopravvissuti ai bombardamenti sono ben pochi e sono ancora malridotti o mal restaurati. Enormi arterie tagliano la città con lo stile squallido delle prospettive moscovite. I nomi, manco a dirlo, sono Stalin Platz, Lenin Strasse, Karl Marx Allee e i palazzi di decine di piani sfilano ai lati del bus turistico, ma tra le quinte si scorgono interi quartieri allo sfascio. Pochissime le auto, negozi vuoti, qualche filobus giallo affollato trasporta cittadini dai volti impassibili. Qui, dice la guida, i nostri valorosi lavoratori hanno appartamenti in assegnazione, così moderni da avere persino l’acqua corrente e il riscaldamento centrale. L’uditorio è un po’ perplesso. Alla fine di un lungo viale si nota una collinetta realizzata ammonticchiando macerie e terra di riporto. Qui, i nostri valorosi lavoratori vengono a sciare la domenica. Chissà come sarebbero contenti i proletari italiani che per la settimana bianca devono affrontare tante salite e transito con catene lontani da casa! Obbligatoria per tutti la sosta al monumento al milite ignoto russo. Tutti in piedi in doveroso silenzio, si deve ascoltare un sermone sull’eroismo dell’armata rossa giunta fino alla tana di Hitler nelle ultime ore del conflitto. Che pena l’Unter den Linden! Il salotto buono dell’altezzosa capitale tedesca conserva solo tracce del passato splendore: gli edifici hanno tutte le persiane chiuse, non un fiore, nessun negozio, spariti i famosi caffè-terrazza con i loro tavolini dalle tovaglie vivaci, i loro ombrelloni, le insegne eleganti, le teiere d’argento. Solo un bar tiene aperte le saracinesche sulla celebre via. Dentro si notano ancora specchiere dorate e stucchi barocchi, ma i clienti fanno la fila in silenzio, si prendono le tazze da soli e vanno a consumare su tavolini coperti da una carta rugosa grigiastra e piena di macchie. Un olandese anzianotto nel gruppo dei “capitalisti” in visita guidata esclama: “ Per fortuna hanno lasciato i tigli!”, ma, sparito il bel mondo, sotto le fronde che danno il nome alla strada non c’è più alcuna allegria. Al rientro, più nessuno ha voglia di scherzare. Lungo il viale che riconduce al Checkpoint Charlie i passanti si fermano a guardare lo strano torpedone di vetro pieno di uomini “liberi”. Alcuni alzano un braccio, vorrebbero fare un gesto di saluto, ma poi la mano si sposta sul viso ad asciugare le lacrime. Loro, dall’altra parte del muro, hanno parenti e amici con i quali non possono più comunicare, hanno metà della loro città massacrata, metà della loro vita e tutto ciò che noi chiamiamo libertà. Una guida occidentale balza sul pullman appena varcato il confine. E’ un giovanotto pieno di mossettine femminee. Ben tornati dal paradiso del socialismo reale! Miei cari, ora si va per uno spuntino al Maitre, Meinekestrasse, cucina francese. Inutile dire che lo spuntino è una cena luculliana e che il locale è di un lusso sfacciato. Guten Appetit!

Dresden – Luglio 1994 e Agosto 2002

Non ho più voluto entrare nella DDR finché è esistita. Con gli anni e l’età si diventa insofferenti. La sola idea di varcare ancora una frontiera comunista e piombare nello squallore di un paese caduto sotto l’influenza sovietica era fonte di repulsione. Finalmente nel 1989 l’odioso muro di Berlino e l’inumano regime sono crollati. L’est europeo è tornato alla vita e la Germania si è riunificata e occupa un posto d’onore nel cuore del continente. Nel 1994 è  giunta l’ora di visitare Dresda!

Ho letto troppe volte la cronaca della distruzione della Firenze tedesca, voluta dagli anglo-americani come tardiva ed inutile rappresaglia contro la Germania nazista già sul punto di capitolare. I colpevoli se la cavano ancora oggi con una sola frase: “ 1945- Massive air raids by English and American bombers destroy the city center on 13/14 february, killing around 35.000 people”. In realtà e in una sola notte venne completamente distrutta una della più belle città del mondo e le persone uccise furono più di centomila. La capitale della Sassonia non aveva subito incursioni, perché ritenuta un capolavoro dell’umanità da preservare. Le altre città tedesche, da Monaco a Berlino, da Colonia ad Amburgo erano già un cumulo di macerie alla fine del 1944. A Dresda erano affluiti profughi a migliaia nell’illusione che la città venisse risparmiata. L’attacco colpì di sorpresa. I generali pianificatori dell’operazione e i piloti ai pulsanti di sgancio delle bombe, nella loro rude ignoranza, è probabile che non abbiano mai avuto modo di ammirare il famoso dipinto del Canaletto che, nel lontano diciottesimo secolo, ha immortalato Dresda, vista dalla riva destra dell’Elba. Qualche dubbio viene pensando ai responsabili più alti, soprattutto inglesi, che dell’arte e della cultura avrebbero dovuto avere rispetto, lasciando a parte le vittime civili. Costoro, però , hanno vinto la guerra e nessuno si sognerebbe di incriminarli per quel delitto insensato. Dopo l’orrenda distruzione, Dresda è rimasta per 40 anni nel limbo comunista. Per fortuna, i proletari locali hanno preferito riempire di grigi casermoni solo le periferie, lasciando il centro storico distrutto nella attesa di trovare i mezzi per la ricostruzione. Con lodevole e molto tedesca precisione, le macerie sono state inventariate, classificate e numerate. Ancora oggi si notano nel gigantesco cantiere gli enormi magazzini e gli scaffali all’aperto con gli innumerevoli e preziosi frammenti, nella attesa di ritrovare collocazione negli edifici ricostruiti dov’erano e com’erano. Vecchie stampe, documenti, planimetrie, quadri e fotografie d’epoca servono da guida nel paziente ed immane lavoro di restauro. A Dresda si dice che nel 2008 la città non avrà più ferite né cicatrici, grazie al marco pesante e alla volontà di cancellare più di mezzo secolo di errori fatali. Comunque la visita di Dresda è una visita amara. Ecco finalmente l’Elba, il famoso ponte di Augusto, la Altstadt con il teatro dell’Opera, lo Zwinger, le grandi chiese e i palazzi, in parte ancora in piena Wiederaufbau. Molte vestigia della vecchia Dresda sono al loro posto, ma si è perduto per sempre il tessuto connettivo, formato da vecchie case, vicoli, attività artigiane, studi di pittori e botteghe. Inoltre non c’è più il popolo di Dresda. L’Altstadt ricostruita a mo’ di museo all’aperto sarà d’ora in poi sempre affollata di turisti con gli zainetti, il naso in aria, la macchine fotografiche, un occhio alle cartoline, alle botteghe di souvenirs. Ci sono battelli nuovi sull’Elba per il giro notturno e cena a bordo, un tram speciale per la visita via terra, le stonature di mille idiomi, i richiami delle guide, le esclamazioni di meraviglia, ma in parte alla città è stato conferito un falso splendore. A pochi passi dalla città vecchia, la Dresda postmoderna è alquanto allucinante per il lusso delle sue vetrine, l’intenso traffico, le enormi insegne dei fast-food, le linee ardite delle nuove architetture. Lontano, nelle periferie a lungo resisterà il grigiore della città dei superstiti, tirata su in fretta e furia sotto il regime con gli scarsi mezzi, il cattivo gusto e i criteri sovietici di una equa spartizione della miseria. Inutilmente i romantici potranno ritrovare in questa città dai tre volti la Dresda dipinta dal Canaletto. Nel nuovo millennio il lussuoso Am Terrassenufer permette di fruire di una suite al dodicesimo piano con enormi finestre affacciate sul fiume e sul centro storico della Firenze tedesca. Il panorama stupendo commuove. Tutti i principali monumenti della meravigliosa capitale della Sassonia sono stati fedelmente ricostruiti dov’erano e come erano prima della guerra. La data del 2008, fissata come termine ultimo per il completamento della totale ricostruzione di Dresda, è stata evidentemente anticipata, con lungimiranza tutta tedesca. L’unico grande cantiere rimasto aperto giorno e notte è quello relativo alla riedificazione della splendida e colossale chiesa di Nostra Signora. Tutto il resto è stato completato, ma occorre precisare che il meticoloso lavoro di recupero è stato possibile solo per i monumenti principali, tornati all’antico splendore, mentre le parti del tessuto urbano irrimediabilmente perdute sono state rimpiazzate da edifici moderni di dubbio stile. Il problema è particolarmente evidente nella prima fascia cittadina fuori delle mura che è tutta ricostruita con criteri moderni e funzionali, quanto gelidi e decisamente brutti. Purtroppo, Dresda, a differenza di Firenze, Praga o Cracovia, città d’arte ancora integre e vive in tutti i loro aspetti, si presenta come un museo all’aria aperta, voluto e preservato, ma alquanto asettico e privo di calore. Si viene al punto, anzi il punto debole dei tedeschi: sono privi di calore.

 Umberto Mantaut

 

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