Il pernottamento a Wadi Musa è necessario per acclimatarsi all’aria, forse sarebbe meglio dire all’aura, del sito di Petra. Dal 1985 è considerato una delle perle più preziose del patrimonio umano protetto dall’UNESCO, dal 1993 fa parte del grandioso Parco archeologico nazionale della Giordania, dal 2007 è dichiarato uno delle sette meraviglie del nostro mondo. Già tutto il tragitto, da Aqaba verso nord, lungo la Desert Highway, offre uno scenario naturale che affascina e ammutolisce. Sulla destra si costeggiano a lungo le propaggini del deserto di Wadi Rum. Enormi blocchi di roccia rossa, modellata dai venti, emergono dalle sabbie giallastre, contro un cielo senza nubi, d’un blu intenso. Poi si devia a sinistra, su una strada accidentata, passando ai piedi dell’arido monte Mubrak. In queste regioni, le uniche tracce della presenza umana sono isolate tende di nomadi, intorno alle quali si aggirano nervosi, piccoli e neri purosangue arabi, qualche abitazione rupestre presso rari pozzi, accanto ai quali crescono arbusti assetati e dormono vecchi dromedari. Wadi Musa è una piccola oasi dalle mitiche origini. Qui, Mosè, colpendo una roccia con il suo bastone, fece scaturire una fonte, Ayn Musa, che ancor oggi alimenta il villaggio. Il nome nabateo dell’oasi era Gaia e vi si adorava un dio chiamato Dushara. Per sua fortuna, Wadi Musa si è trasformata in un accogliente centro turistico, dopo la riscoperta di Petra. Le strutture alberghiere sono state inserite intelligentemente nel semplice tessuto del villaggio e nel contesto ambientale sobrio e severo.
Il King’s Way Muse Hotel è di un’eleganza discreta. Sul suo piazzale ghiaioso sostano i torpedoni dei gruppi e le auto di lusso degli sceicchi, ma potrebbero riposarvi anche i cammelli di una carovana tradizionale. All’interno c’è l’atmosfera rilassante di una tenda beduina. Fuori, intorno alla fonte, nelle loro piccole botteghe i mercanti attendono, senz’essere petulanti, di vendere strane bottigliette, piene di sabbia multicolore, stratificata e modellata a formare ingenui motivi ornamentali, dromedari, dune, rocce rosse, cieli blu e tramonti infuocati nel deserto. Nel silenzio della notte le stelle splendono come diamanti sul velluto blu di una fantastica gioielleria, si odono il gorgogliare dell’acqua sorgiva miracolosa e il fruscio del vento desertico. All’alba ci si incammina sulla sabbia rosea, lungo il letto disseccato del wadi. Prima che il sole renda insopportabile la marcia, si raggiunge una parete rocciosa bruno-rossastra, apparentemente inaccessibile, finché non si scorge un varco angusto, che il fiume ha scavato nella montagna milioni di anni fa, forse con l’ausilio di un preistorico terremoto. In quella fenditura impressionante, perché il sole non vi penetra e, in alto, le pareti sembrano chiudersi in una morsa di porfido e arenaria, nel lontano 1812, osò insinuarsi l’esploratore Johann Ludwig Burckhardt. Il mondo ignorava, ormai da secoli, l’esistenza di una città fantastica, fondata dagli edomiti tredici secoli prima di Cristo, passata poi ai nabatei, ricchi e raffinati commercianti, ed infine ai romani. Sulle orme di Burckhardt, i turisti di oggi vivono le medesime emozioni. Si cammina a lungo nel profondo della gola sinuosa, sempre più intimoriti dal silenzio e dal mistero dell’orrido. Lungo tutto il percorso, il sentiero è costeggiato dai resti di un antico canale, che portava l’acqua alla città rupestre. Ogni tanto, ad accrescere la sinistra suggestione del luogo, sulle pareti a picco si notano monumenti funerari in stile egizio o greco ed ingressi di grotte sepolcrali. Dopo l’ennesima strettoia, quasi all’improvviso appare il monumento più insigne della città nabatea: Al-Kharnah, meglio noto come “ Il Tesoro del Faraone”. Il sole illumina la facciata, aderente alla montagna, con effetti incredibili: le colonne, i capitelli, i frontoni, le statue e gli ornamenti floreali ellenistici, scolpiti nell’arenaria rosa e l’ombra netta delle nicchie e delle porte, creano contrasti stupefacenti. Ci si domanda, perché e come sia stato possibile, concepire e realizzare un’opera così colossale ed al tempo stesso armoniosa e magniloquente. Una leggenda narra che, nel punto più elevato del monumento, in un’urna appoggiata sull’ultimo capitello corinzio, un faraone avrebbe accumulato oro. L’urna è stata visitata e danneggiata più volte nel vano tentativo di scoprire il tesoro. E’ stata persino colpita a fucilate dai beduini, ma continua a dominare inviolata Al-Kharnah. Occorre un certo tempo per riaversi dalla sorpresa ed anche dalla stanchezza per il lungo cammino. Poi si scopre che Petra è molto estesa ed articolata in grandi quartieri di abitazioni rupestri, luoghi di culto con templi grandiosi, necropoli ricche di tombe monumentali, terme, mercati, teatri, fori e ninfei. Il tutto su un’area tanto ampia che ci vorrebbero alcuni giorni per visitarla tutta. La città bassa, ai piedi del Gebel Attuf, alto più di 1.000 metri, ha maggiormente risentito dell’influenza romana, nell’epoca di Traiano. Vi si trovano, quindi, non solo i classici monumenti nabatei, scavati nei fianchi delle colline, ma anche edifici costruiti con blocchi di arenaria rosa e colonnati, lungo il cardo maximus. In queste zone confluiscono il wadi Musa, il wadi Matahah e quello chiamato as-Siyyagh. Nelle gole di questi torrenti, la fantastica città riserva continue sorprese: un susseguirsi di templi, tombe regali, cisterne, abitazioni, sempre ricavati nelle grotte, ma con facciate classicheggianti scolpite nelle pareti scoscese dei dirupi. L’assenza di vegetazione in tutto il comprensorio rupestre rende particolarmente suggestivo l’effetto di qualche raro arbusto fiorito, che si può incontrare sul fondo delle vallate, dove si conserva un poco d’umidità. Quivi sonnecchiano i dromedari delle carovane e i cavalli dei pochi calessi ancora ammessi al servizio dei turisti. Infatti, le autorità giordane, molto saggiamente, hanno proibito l’affollamento di bestie da soma, per non inquinare le sabbie degli wadi e non ammorbare l’aria delle gole montane. Chi vuole godersi Petra deve camminare a piedi, e molto. Sulle orme dei nostri antenati nomadi, bisogna andare faticosamente a ritroso nel tempo e nello spazio, nel paesaggio modellato dalle forze della natura nella roccia del deserto, fino a riscoprire le incredibili opere di scultura e architettura degli arabi nabatei. Nelle loro tombe regali viene spontaneo un pensiero di ringraziamento per averci lasciato, ben nascosta fra i monti giordani, questa affascinante Petra, la “città rosa”.